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SENTENZE DANNO ESISTENZIALE
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Tribunale di Palermo, 6 giugno 2001 [Incidenti stradali]
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Trib. Palermo, 8 giugno 2001 [Giud. De Gregorio]

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 25/27 febbraio 1999, Giuseppe Bonaparte conveniva in giudizio la SAI Società Assicuratrice Industriale s.p.a. s.p.a. e Giuseppe Armanno, per sentirli condannare alla rifusione dei danni subiti in conseguenza di sinistro stradale verificatosi in data 28 febbraio 1997 sul cittadino corso dei Mille, allorquando la bicicletta condotto dal di lui padre Giovanni Bonaparte venne investita dall'autovettura Renault Clio tg. PA A42895, assicurata per la r.c. auto con la SAI s.p.a., di proprietà e condotta da Giuseppe Armanno, vettura che procedeva lungo detta via con direzione di marcia opposta a quella del ciclista. A seguito dell'urto, continuava l'attore, il congiunto riportò gravissime lesioni, che ne determinarono l'immediato decesso. Deducendo l'esclusiva responsabilità dell'Armanno nella causazione del sinistro, concludevano chiedendo ritenere l'Armanno e la SAI s.p.a. responsabili in solido del sinistro, conseguentemente condannando i convenuti in solido al pagamento in favore dell'attore, per la perdita del padre, a titolo di risarcimento per tutti i danni subiti, quantificati nella somma complessiva di Lire 378.018.000 (lire 76.338.000 quale danno patrimoniale in proiezione futura -lire 300.000.000 per danno non patrimoniale- lire 1.680.000 per danno emergente), oltre interessi e rivalutazione monetaria con decorrenza dall'evento per cui è causa; e con vittoria delle spese di lite.
Si costituiva in giudizio solo la società assicuratrice, contestando in toto le pretese risarcitorie attoree, sia in punto di voci di danno che di quantificazione delle stesse. E concludeva chiedendo di liquidare in favore dell'attore il danno patrimoniale nei limiti del dovuto (non contestando quanto afferente le spese funerarie e di trasporto/custodia del velocipede del de cuius), oltre rivalutazione ed interessi dalle date degli esborsi al soddisfo; di liquidare il danno morale nella giusta misura equitativa con riferimento all'effettiva intensità del dolore e del perturbamento psichico sofferto dall'attore stesso, oltre agli interessi dalla data della sentenza al soddisfo; di rigettare le ulteriori infondate e non provate domande attoree, e compensare integralmente tra le parti spese e compensi del giudizio.
Nel corso dell'istruzione venivano acquisiti gli atti del procedimento penale relativo al sinistro, assunta prova testimoniale con i testi Giovanna Guaiana e Lucia Guaiana; alla udienza del 4 novembre 1999 veniva altresì emessa, in favore dell'attore, ordinanza di pagamento ex art. 186 bis c.p.c. per l'ammontare di lire 4.918.800, oltre interessi.
Infine, sulle conclusioni adottate dalle parti, la causa veniva posta in decisione all'udienza del 1° febbraio 2001, con assegnazione dei termini di legge per lo scambio degli atti difensivi conclusionali.
Motivi della decisione
In via preliminare deve darsi atto della proponibilità in rito della domanda attrice, alla luce della richiesta stragiudiziale inviata alla compagnia convenuta, ex art. 22 l. 990/1969, con raccomandata a/r versata in copia in atti.
Nel merito, dalle difese spiegate dalla assicuratrice convenuta e dalla documentazione prodotta, e segnatamente dagli atti del procedimento penale istruito a seguito del sinistro per cui è causa (e conclusosi con la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p nei confronti di Giuseppe Armanno, pronuncia prodotta in copia), deve ritenersi accertata la esclusiva responsabilità di quest'ultimo per lo scontro frontale del 28 febbraio 1997, avvenuto sul cittadino corso Dei Mille, tra l'autovettura Renault Clio tg. PA A42895 condotta da Giuseppe Armanno e l'altro veicolo, la bicicletta condotta e di proprietà di Giovanni Bonaparte. Difatti, lo scontro si concretizzò allorquando l'autovettura ebbe ad invadere l'opposta corsia di marcia sulla quale transitava Giovanni Bonaparte, il quale transitava regolarmente a destra. Per effetto dell'urto, il conducente del velocipede riportò gravissime lesioni, che ne cagionarono l'immediato decesso.
Date queste considerazioni, va ricordato che la presunzione di pari responsabilità per come prevista dall'art. 2054 comma 2 c.c. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro (cfr. Cassazione civile sez. III, 28 maggio 1996, n. 4909).
Nel caso di specie, l'accertamento della esclusiva colpa dell'Armanno e della regolare condotta di guida del Bonaparte (che traspare, peraltro, dalla stessa motivazione della sentenza penale emessa nei confronti di Giuseppe Armanno), per le violazioni alle norme del Codice della Strada che impongono ai conducenti di mantenere la destra e di mantenere una velocità adeguata alle condizioni di tempo e di luogo (artt. 143 e 141 D.lgs. 285/1992), consente di superare detta presunzione, e di ritenere responsabile, in concreto, del sinistro Giuseppe Armanno. Ne consegue che i convenuti, ciascuno per il rispettivo titolo, vanno ritenuti responsabili del sinistro di cui è causa, e condannati al risarcimento dei danni patiti dall'attore.
Venendo quindi alle singole domande, Giuseppe Bonaparte chiede intanto il ristoro del danno morale: tale richiesta necessita di talune considerazioni.
Tra le più dibattute questioni in tema di danno non patrimoniale, si inserisce quella riguardante l'individuazione dei soggetti legittimati a pretendere il ristoro per tale voce risarcitoria. In generale, si riconosce la legittimazione attiva esclusivamente alla vittima del reato; ma in alcune ipotesi si prospetta l'eventualità che, pur essendo unica la vittima del reato, l'illecito manifesti una potenzialità plurioffensiva, con la conseguenza che va accordata la tutela anche a soggetti diversi dalla vittima: ciò è quanto accade nell'ipotesi di illecito che abbia cagionato la morte della vittima. In tale ipotesi, il ristoro del danno non patrimoniale viene attribuito a soggetti diversi dalla vittima, purché il decesso sia causalmente ricollegabile al fatto illecito, e quest'ultimo presenti gli elementi essenziali perché possa astrattamente configurarsi come reato.
La legittimazione viene cioè attribuita ai prossimi congiunti in vista della sussistenza in capo a costoro di sofferenze e patemi d'animo, cagionati dalla perdita della persona cara e immediatamente ricollegabili all'illecito (cfr. Cassazione civile 7.5.1983 n. 3116), in ciò sustanziandosi il danno di che trattasi: il problema ulteriore, allora, sta nella individuazione, nell'ampia cerchia dei congiunti, dei soggetti ai quali riconoscere la legittimazione a pretendere il ristoro.
Secondo l'orientamento tradizionale del Supremo Collegio (cfr. la pronuncia da ultimo richiamata) “il risarcimento del danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto, va riconosciuto in favore dei prossimi congiunti, iure proprio, cioè indipendentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la perdita di un valido sostegno morale, e, pertanto, a prescindere dall'eventuale pregressa cessazione della situazione di convivenza con la vittima medesima, la quale di per sé non può configurare elemento indiziario idoneo a sorreggere la congettura del venir meno della comunione spirituale fra congiunti, con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a un livello giuridicamente irrilevante”.
Dunque la risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto presuppone, oltre al rapporto di parentela, anche la perdita, in concreto, di un effettivo e valido sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per il tipo di parentela, non abbia diritto di essere assistito anche moralmente dalla vittima (cfr. Cass., sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938).
Sviluppando tali indicazioni, ed in mancanza di precipue disposizioni normative sul punto, ritiene questo Decidente di accedere alle seguenti regole - proposte da Trib. Trento 19 maggio 1995, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 1017 - per il riconoscimento della legittimazione:
a) devono senz'altro considerarsi come aventi diritto il coniuge, i figli (anche in tenera età), i genitori, i fratelli e le sorelle: in breve, tutti i componenti della cosiddetta famiglia nucleare, per i quali appare irrilevante anche la cessazione della convivenza;
b) quanto agli altri parenti ed affini (nonni, nipoti, zii, cugini, cognati, ecc.), la legittimazione può esser loro riconosciuta soltanto se, oltre all'esistenza del rapporto di parentela o di affinità, concorrano ulteriori circostanze atte a far ritenere che la morte del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per tipo di parentela, non abbia diritto ad essere assistito anche moralmente dalla vittima.
In altri termini, per gli stretti congiunti, di cui al gruppo a), la legittimazione a chiedere il risarcimento per il danno morale non richiede altra verifica che quella del rapporto di stretta parentela, salva la prova (che dovrà, secondo le regole generali, fornire il danneggiante) che, nonostante il legame di parentela, il rapporto tra superstite e vittima era deteriorato al punto tale da escludere che il primo abbia sofferto per la morte della seconda. Per gli altri parenti, di cui al gruppo b), non basta la dimostrazione del rapporto di parentela o affinità, e chi richiede il risarcimento deve fornire la dimostrazione che, con la morte della vittima, ha perduto un effettivo e valido sostegno morale.
Da tutte tali considerazioni, e in base agli elementi forniti al decidente - in particolare, la relazione di parentela e la convivenza - può riconoscersi il danno morale “riflesso” chiesto dall'attore. Per quanto attiene alla valutazione, questo danno sfugge, in virtù del suo contenuto etico, ad una precisa quantificazione ed è, pertanto, di natura essenzialmente equitativa; tuttavia, va rispettata l'esigenza di una razionale correlazione tra l'entità oggettiva del danno (specie se destinato a protrarsi nel tempo) e l'equivalente pecuniario, in modo che questo, tenuto conto del potere di acquisto della moneta, mantenga la sua connessione con l'entità e la natura del danno da risarcire, e non rappresenti un mero simulacro o una parvenza di risarcimento (cfr. Cass., sez. III, 21 maggio 1996, n. 4671; sez. III, 11 giugno 1998, n. 5795). Può quindi operarsi un criterio che, pur rimanendo essenzialmente equitativo, offra un parametro di riferimento concreto, anche in relazione all'esigenza di indicare gli estremi logico-giuridici e fattuali che hanno guidato la quantificazione (cfr. Cass., sez. II 11 febbraio 1998, n. 1382): si liquida, allora, sulla base del danno morale che sarebbe spettato al defunto se, anziché morire, avesse riportato una invalidità del 100%, tenendo pure conto delle esigenze del caso di specie, e cioè dell'età della persona offesa e del dolore arrecato ai familiari per la sua morte e di tutte le circostanze ed elementi della fattispecie in modo da rendere la somma liquidata il più possibile adeguata all'effettivo pretium doloris. Ciò utilizzando un parametro di riferimento preciso, rappresentato dalle tabelle in uso presso questo Tribunale per la liquidazione del danno biologico e del morale.
Pertanto, considerando che Giovanni Bonaparte al momento del sinistro aveva sessantadue anni, secondo i parametri adottati dal Tribunale per la determinazione del danno morale (da ¼ alla metà rispetto alla quantificazione del danno biologico, determinato a sua volta con “criterio tabellare” ormai noto), gli sarebbe potuta spettare, se fosse rimasto in vita, una somma oscillante tra Lire 152.900.000 e 305.800.000 - in valuta attuale: valore punto 8.800.000, coefficiente per l'età 0.695 - quale danno non patrimoniale, può allora liquidarsi al figlio superstite (in relazione al caso specifico, apprezzandosi cioè la circostanza che il de cuius e il figlio costituivano gli unici due componenti di una famiglia, ed equitativamente) la cifra di Lire 230.000.000, in valuta attuale (pari a circa 1/3 di quell'ipotetico danno biologico utilizzato quale parametro di riferimento).
Deduce poi l'attore di aver subito, a causa dell'illecito, un ulteriore pregiudizio, identificato nel cd. “danno biologico in senso lato” o “danno esistenziale”, ma così solo genericamente indicato in citazione, senza cioè alcun elemento in ordine alla portata e al contenuto di tale danno (in che cosa consista, come sia emerso, che quantum risarcitorio richieda); anzi, in detto atto ha fatto espressa riserva di specificare in corso di giudizio l'essenza di tale pregiudizio, e di operarne la relativa quantificazione.
Deve allora osservarsi la assoluta genericità ed indeterminatezza della richiesta, e la tardività della specificazione (addirittura mancando qualsiasi riferimento in comparsa conclusionale), che, trattandosi di precisazione della domanda, avrebbe dovuto operarsi entro il termine perentorio assegnato, a mente dell'ultimo comma dell'art. 183 c.p.c., operata invece solo dopo lo spirare di detto termine, ed implicitamente, con le deduzioni allegate al verbale di udienza del 3 febbraio 2000. Va poi aggiunto che in sede di precisazione delle conclusioni l'attore si è riportato alla citazione e agli atti di causa, senza alcun riferimento a quanto addotto in seno alla richiamata udienza, e specificando le poste risarcitorie con riferimento al danno patrimoniale e non patrimoniale, ma senza nulla aggiungere in punto di danno esistenziale.
Ora, per meglio comprendere perché debba ritenersi indeterminata, e come tale da rigettare, detta pretesa attorea, vanno premesse talune considerazioni di ordine generale sul cd. danno esistenziale.
Tale nuova figura comincia a delinearsi in dottrina in coincidenza con una diffusa tendenza alla valorizzazione dell'individuo al di là della sfera economica, e che trova appiglio nella Carta Costituzionale -art. 3 comma 2-, per come peraltro evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. pronuncia 10 maggio 1999, n. 167). La salvaguardia della persona diventa perciò il mezzo per consentire che ciascun individuo possa realizzare liberamente la propria dimensione esistenziale.
E così, le nuove figure di danno via delineate a partire dagli anni 70, quali il danno alla vita di relazione, il danno all'identità sessuale, sino al danno biologico per come rimodulato dalla Corte Costituzionale con la nota pronuncia n. 184 del 1986 - che lo ha definitivamente ancorato al sistema di tutela ex art. 2043 c.c. - presentano tutte un comune elemento: la tutela risarcitoria da accordare al danneggiato a fronte della modificazione peggiorativa della fase dinamica della propria esistenza, cioè l'esplicazione della propria individualità.
Il danno biologico rappresentò un essenziale punto di arrivo in tal senso, in considerazione della centralità del ruolo della salute rispetto l'individuo, incidendo sulla persona considerata nei suoi riflessi spirituali, culturali, affettivi, etc. (cfr. Corte Costituzionale 18 luglio 1991, n. 356); divenne quindi categoria autonoma di nocumento, che coesiste e si affianca all'eventuale danno patrimoniale stricto sensu inteso come pregiudizio correlato all'efficienza lavorativa e quindi alla capacità di reddito del soggetto leso, rappresentando la lesione alla integrità psico-fisica della persona.
Dunque, la tutela risarcitoria da accordare in caso di lesione del bene salute (fisica o psichica) viene ad avere assegnata un ampia latitudine, proprio per le molteplici implicazione che la compromissione della salute ha sulla qualità della vita.
E così, il passaggio dal danno biologico al danno esistenziale come lesione alla qualità della vita, come compromissione della sfera di realizzazione della persona (voce di danno che comincia a trovare spazio, seppur implicito, anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, sin da Cass. 11 novembre 1986, n. 6607, su Foro it., 1987, I, 833, ove si dice che anche il diritto reciproco di ciascun coniuge ai rapporti sessuali con l'altro coniuge è diritto inerente alla persona: è un diritto riguardante, ed avente per contenuto, un modo di essere, un aspetto dello svolgimento della persona di ciascun coniuge nell'ambito della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, formazione sociale ove si svolge la personalità dell'uomo, i cui diritti inviolabili sono costituzionalmente riconosciuti e garantiti. Come tale, in quanto diritto della persona, in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia, va equiparato al diritto alla salute, quale diritto della persona all'integrità fisio-psichica; cfr. pure Cass. 2 febbraio 2001, n. 1516), diviene quasi obbligatorio, soffermandosi sui riflessi negativi che l'illecito provoca sulla dimensione personale della vittima (in riferimento alla relazioni affettivo-familiari, ai rapporti sociali, alle attività culturali, agli svaghi, ai divertimenti), senza incidere sulla salute della stessa.
Il danno biologico, allora, altro non è se non un danno esistenziale; cioè un sottotipo di quest'ultimo. In dottrina, la distinzione tra dette voci di danno viene posta non già sul piano delle conseguenze, trattandosi comunque di ripercussioni attinenti alla qualità della vita, bensì su ciò che in origine viene colpito: nel caso del danno biologico vi è un evento corrispondente alla lesione della salute di qualcuno (fisica, psichica), suscettibile di accertamento medico-legale e risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato; nell'altro caso - danno esistenziale non-biologico - ci si trova di fronte all'aggressione di posizioni d'altro genere (onore, libertà di movimento, ambiente, normalità familiare, etc.), senza la lesione del bene salute quale antecedente indefettibile.
Corretta potrà essere invece, e al tempo stesso proficua, una comparazione delle attività realizzatrici della persona che appaiono destinate a rimanere indebolite - rispettivamente - nell'una e nell'altra ipotesi. Cosicché, schematizzando, potranno aversi a) attività che soltanto una lesione al bene salute potrà, di regola, incrinare; b) attività insidiabili soltanto dall'attentato a prerogative diverse dalla salute; c) attività suscettibili di venire lese, secondo modalità più o meno diverse, sia in una ipotesi che nell'altra.
Vanno poi rimarcate alcune differenziazioni, onde evitare che tale nuova voce risarcitoria si sovrapponga ad altre già riconosciute. Intanto, col danno psichico, inteso questo quale lesione della salute mentale, e quindi rilevante quale malattia, per cui il fulcro è rappresentato dalla lesione alla salute, per se stessa considerata, che invece non si ha col danno esistenziale. Cosicché il primo si colloca (sulla scia di Corte Cost. 184 del 1986) nell'area dell'evento; il secondo in quella delle conseguenze operative, dinamiche, proprie della vita di ogni giorno.
Più problematica può poi apparire la linea di confine col danno morale: quest'ultimo, difatti, è forse quello di più difficile definizione, anche in relazione alle diverse interpretazioni offerte dalla stessa Corte Costituzionale. Se è evidente può risultare la differenza sul terreno della disciplina (da un lato l'art. 2059 c.c., dall'altro le norme ordinarie sulla responsabilità), è sul piano delle conseguenze per la persona che deve porsi notevole attenzione.
In sintesi, (sulla scia di quanto già detto supra a proposito del danno morale patito da Giuseppe Bonaparte) può sostenersi (con la migliore dottrina) che il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non poter più fare, un dover agire altrimenti. L'uno attiene per sua natura alla sfera dell'emotività; l'altro concerne il modo di estrinsecarsi, il rapportarsi agli altri della vittima. Nel primo, secondo la distinzione che se ne fa in dottrina, è destinata a rientrare la considerazione del pianto versato, degli affanni, il cd. pretium doloris; nell'altro l'attenzione per i rovesciamenti forzati dell'esistenza, del complessivo modus vivendi. Con una sola nota comune (che può desumersi dalla lettura che dà del danno morale Corte Costituzionale 472/1994): in ambedue i casi si tratta di “conseguenze” dell'evento iniziale, divergendo profondamente nel resto.
Potranno dunque aversi fatti illeciti che arrecano unicamente danni morali; altri soltanto danni esistenziali; altri ancora sia i primi che i secondi.
Dovendosi, quindi, prescindere in questa sede da altre considerazioni sul danno esistenziale, sulla sua compatibilità col sistema risarcitorio aquiliano, la domanda attorea sul punto va perciò rigettata. Difatti, l'allegazione e la prova atta a delineare tale tipo di danno devono essere quanto più possibile determinate, onde evitare il rischio (concreto) di sovrapposizioni.
Senza precisare (almeno tempestivamente, secondo quanto già evidenziato) il contenuto della lesione patita, l'attore ha comunque chiesto ammettersi prova testimoniale, col medico di fiducia della famiglia Bonaparte, sui seguenti articolati: “vero è che considerata la specifica composizione del nucleo familiare e tenuto anche conto della particolare sensibilità del Sig. Bonaparte Giuseppe, quest'ultimo ha avvertito in modo significativo il cambiamento di abitudini della sua vita, dovendo vivere da solo in quella casa che per anni ha abitato unitamente al padre?”; “vero è che il precitato dopo la morte del genitore e per un notevole periodo di tempo ha avuto considerevole difficoltà a realizzare compiutamente la propria personalità nello svolgimento delle quotidiane attività?”; “vero è che dopo la verificazione di tale traumatico evento, la sfera di realizzazione del Sig. Bonaparte Giuseppe è stata per un rilevante lasso temporale compromessa, rimanendo quindi intaccate durante tale periodo la sua individualità e la sua dimensione personale?”.
E' evidente, allora, la genericità e l'ininfluenza di tali articolati: genericità, perché nessuno di essi, concretamente, mira a dimostrare in che cosa, in quali aspetti la vita dell'attore risulti modificata; ininfluenti, perché comunque evidente è la delimitazione temporale operata dallo stesso attore, dovendosi osservare invece che laddove la variazione dell'esistenza sia temporanea, essa certamente - secondo l'id quod plerumque accidit - risente del cd. periodo di lutto, ovvero dell'influenza dell'evento sul soggetto per un periodo determinato, con riflesso sì sulle ordinarie abitudini e sulle scelte della vita quotidiana, ma per un periodo limitato, più o meno ampio, all'esito del quale, gradatamente il soggetto (dell'età dell'attore, ventiseienne al momento del fatto) riprenderà, pur nel ricordo del soggetto che non è più, le pregresse occupazioni, ciò rientrando nel pretium doloris.
Invece, la lesione alla qualità della vita è incidente in maniera definitiva sul modus vivendi del soggetto, di guisa che nulla potrà essere più come prima (si pensi, ad esempio, al genitore costretto a vivere col figlio privato degli arti; ovvero al bambino cresciuto senza l'apporto di uno dei genitori).
Dunque, nel caso di specie, laddove peraltro non può farsi ricorso a presunzioni (che il figlio adulto perda il genitore rientra nello schema naturale delle cose, a differenza del contrario), è mancata la prova, né è stato chiesto di provare, che l'evento letale abbia inciso sulla sfera qualitativa dell'esistenza di Giuseppe Bonaparte in maniera drastica e risolutiva.
Per tutte tali considerazioni la pretesa attorea sul punto va rigettata.
Il Bonaparte chiede poi il ristoro del danno patrimoniale, sotto il profilo 1) dell'apporto economico venuto meno a seguito del decesso del padre, cioè della perdita della quota-parte di reddito al medesimi destinata dal de cuius per il periodo di permanenza nel nucleo familiare; nonché 2) degli esborsi causalmente ricollegabili all'illecito.
Quanto alla prima voce di danno, il risarcimento del danno richiesto integra il cd. danno patrimoniale futuro risarcibile a favore dei congiunti della vittima - deceduta a seguito di fatto illecito -, da ravvisarsi, secondo l'insegnamento della giurisprudenza, nella perdita o nella diminuzione di quei contributi patrimoniali e di quelle utilità economiche, che, sia in relazione ai precetti normativi che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà familiare e di costume, presumibilmente il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. Cass., sez. III, 26 novembre 1996, n. 1474).
In particolare, l'aspettativa degli stretti congiunti ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso in tanto integra un danno futuro risarcibile in quanto sia possibile presumere, in base ad un criterio di normalità fondato su tutte le circostanze del caso concreto, che un contributo economico la persona defunta avrebbe effettivamente apportato (cfr. Cass., sez. III, 14 febbraio 2000, n. 1637).
Nel caso di specie, all'esito dell'istruzione, e segnatamente delle prove testimoniali espletate, è risultato acclarato il carattere della durevolezza e della costanza delle erogazioni prestate dal de cuius al figlio, nonché la quantità delle stesse, da rapportare essenzialmente (come riferito dalla teste Lucia Guaiana) ai costi di gestione dell'attività libero-professionale - ragioniere commercialista - intrapresa dall'odierno attore nel 1995 (come da certificazione del collegio dei Ragionieri della Provincia di Palermo, prodotta dall'attore).
Tuttavia, a differenza di quanto addotto dal Riccobono, manca la prova, né può desumersi in via presuntiva, che dette elargizioni sarebbero continuate costantemente per il lungo periodo indicato dall'attore (dieci anni), e nella quantità indicata (percentuale fissa del reddito da pensione goduto dal de cuius). Anzi, le presunzioni depongono in senso inverso: se infatti dalle copie delle dichiarazioni dei redditi prodotte si evince che in effetti nei primi due anni l'attività libero professionale non offriva che un reddito insoddisfacente (lire 4.051.000 per il 1995 e Lire 2.617.000 per il 1996), è pur vero che può presumersi un costante e graduale aumento per gli anni successivi, e tale da erodere in misura inversamente proporzionale l'aiuto paterno sino ad eliminarlo del tutto. D'altronde, l'attore, pur avendone l'onere, nulla ha provato per smentire tale considerazione basata su dati di comune esperienza; in particolare, questi - almeno sino allo scadere dei termini per le deduzioni istruttorie ex art. 184 c.p.c. - ben avrebbe potuto produrre le copie delle dichiarazioni dei redditi relative agli anni successivi, onde offrire un quadro quanto il più possibile esauriente al Tribunale. In particolare, dovendosi osservare che la valutazione di tale posta risarcitoria non può che essere equitativa, appunto non potendosi dare per scontata la quantità delle contribuzioni via via elargite, avrebbe dovuto offrire l'attore ogni utile elemento per agganciare la quantificazione a parametri sicuri. Seppur vero è, comunque, che, allo stato, è impossibile pervenire ad una “esatta stima dei danni”, è anche vero che la lettura dell'art. 1226 c.c. può offrire una soluzione: va infatti rammentato l'insegnamento del Supremo Collegio, per cui “il giudice adito con azione di risarcimento di danni può e deve, anche di ufficio, procedere alla liquidazione degli stessi in via equitativa nell'ipotesi in cui sia mancata interamente la prova del loro preciso ammontare per l'impossibilità della parte di fornire congrui e idonei elementi al riguardo, ma anche nell'ipotesi che, pur essendosi svolta un'attività processuale della parte volta a fornire questi elementi, il giudice, per la notevole difficoltà di una precisa quantificazione, non li abbia tuttavia riconosciuti di sicura efficacia” (Cass., sez. I, 19 marzo 1991, n. 2934).
Allora, in base agli scarni elementi forniti, può ritenersi che le contribuzioni del de cuius si sarebbero protratte per il triennio successivo al sinistro, verosimilmente con andamento via via in diminuzione; e perciò, fissandosi l'ammontare di esse per l'anno 1996 in Lire 5.180.000 (pari a Lire 5.179.000, ovvero la somma dei costi di gestioni per quell'anno risultanti dalla dichiarazione dei redditi - col. E21 - e secondo quanto riferito dalla teste prima richiamata), può liquidarsi, equitativamente e in valuta attuale, l'ammontare di Lire 15.000.000, cifra che tiene conto, come detto, del verosimile apporto complessivo.
L attore, infine, chiedono il ristoro del danno patrimoniale afferente le spese funerarie sostenute a seguito del decesso del congiunto, e quelle relative, al danneggiamento, al trasporto e alla custodia del velocipede del padre.
Per quanto attiene le spese funerarie e quelli di custodia della bicicletta del de cuius, va osservato che, a seguito della non contestazione da parte della convenuta Sai s.p.a., l'Istruttore ha già concesso ordinanza di pagamento ex art. 186 bis c.p.c. per l'ammontare di Lire 4.918.800, oltre interessi dalla data dei singoli esborsi sino al soddisfo; perciò, risultando incontroverso che parte convenuta abbia adempiuto (come da quietanza in atti), tale posta non viene computata nel quantum risarcitorio complessivo, in ragione dell'avvenuto soddisfacimento (la sentenza, in ogni caso, assorbe l'ordinanza di che trattasi, resa alla udienza del 4.11.1999).
Per quanto attiene, invece, la bicicletta, si osserva come l'attore non abbia assolto l'onere posto a suo carico dall'art. 2697 c.c..
Invero, non può ragionevolmente dubitarsi che il veicolo sia rimasto danneggiato in occasione del sinistro. Tuttavia non è dato sapere se il mezzo sia stato distrutto o riparato, e con che spesa.
E' appena il caso di notare, poi, come il preventivo di riparazione redatto da un terzo può essere sì valutato ex art. 2729 c.c., ma solo se unito ad altri elementi di prova; in quest'ultimo caso infatti può costituire un riscontro di elementi forniti aliunde, che corrobora quelli e ne è corroborato. Da solo ed in sé considerato, esso non è che una valutazione: ovvero la comparazione di uno stato di fatto con una operazione economica. Come valutazione, un simile documento (ripetesi, ove costituisca l'unico elemento addotto a sostegno delle richieste avanzate) è assolutamente inidoneo a stimare un danno purchessia. Sarebbe infatti illogico ed iniquo consentire documentalmente l'acquisizione di valutazioni di terzi, precluse ove tali terzi dovessero deporre come testi.
L'attore non potrebbe neppure invocare l'applicazione dell'art. 1226 c.c., norma di chiusura dettata a salvaguardia delle ipotesi di oggettiva impossibilità di prova, non di mera difficoltà, specie se dovuta ad inerzia della parte. In simili casi, l'applicazione dell'art. 1226 c.c. si tradurrebbe in un indebito sbilanciamento della parità delle parti. Pertanto, la domanda sul punto va rigettata.
Interessi da ritardato pagamento: le somme finora liquidate sono espresse in valori attuali, e, se da un lato costituiscono l'adeguato equivalente pecuniario della compromissione di beni giuridicamente protetti, tuttavia non comprendono l'ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità della somma dovuta, provocata dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato l'equivalente in denaro del bene leso. Nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento da fatto illecito, vanno pertanto corrisposti interessi per il cui calcolo non si deve utilizzare necessariamente il tasso legale, ma un valore tale da rimpiazzare il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene perduto.
Orbene, tale voce di danno deve essere provata dal creditore e, solo in caso negativo, il giudice, nel liquidare il risarcimento ad essa relativo, può fare riferimento, quale criterio presuntivo ed equitativo, ad un tasso di interesse che, in mancanza di contrarie indicazioni suggerite dal caso concreto, può essere fissato nell'interesse legale medio del periodo intercorrente tra la data del fatto e quella attuale della liquidazione.
Tale “interesse” va, tuttavia, applicato non già alla somma rivalutata in un'unica soluzione alla data della sentenza, bensì, conformemente al noto principio enunciato dalle S.U. della Suprema Corte con sentenza 17/2/1995 n° 1712, sulla “somma capitale” rivalutata di anno in anno.
Procedendo alla stregua dei criteri appena enunciati, a partire dal danno complessivamente subito e su indicato, si determina il “danno iniziale”, inteso come danno finale devalutato alla data del sinistro; questo viene successivamente rivalutato fino alla data della sentenza, al contempo calcolando gli interessi ponderati via via maturati. Si arriva in tal modo a determinare l'importo degli interessi da corrispondere per la mancata completa disponibilità del risarcimento dovuto.
Conseguentemente, la somma (residua, ad esclusione cioè di quella già calcolata con l'ordinanza ex art. 186 bis c.p.c.) da liquidare in favore di Giuseppe Bonaparte, comprensiva di capitale (danno morale e patrimoniale) ed interessi da ritardato pagamento, è pari a Lire 280.700.000 (di cui lire 245.000.000 per capitale, e lire 35.700.000 per interessi); su tale somma vanno poi conteggiati gli interessi come per legge dalla data della presente decisione sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P. Q. M.
Il Tribunale di Palermo, Terza Sezione Civile, in persona del G. I. in funzione di Giudice Unico, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta, definitivamente pronunciando nella contumacia di Armanno Giuseppe, così provvede:
In accoglimento delle domande proposte da Bonaparte Giuseppe con atto di citazione dei 25/27 febbraio 1999, condanna i convenuti Armanno Giuseppe e SAI Società Assicuratrice Industriale s.p.a., in solido tra loro, al pagamento, in favore dell'attore, della somma di Lire 280.700.000 (rimanendo escluso quanto già liquidato con l'ordinanza ex art. 186bis c.p.c., da intendersi confermata), oltre interessi come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo.
Condanna i predetti convenuti in solido alla rifusione a favore dell'attore delle spese del presente giudizio, che liquida in complessive Lire 11.379.500.=, di cui lire 379.500 per esborsi, lire 3.000.000 per diritti, lire 7.000.000 per onorari e lire 1.000.000 per spese generali, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
In relazione al disposto degli artt. 59 lett. d) e 60 T. U. sull'imposta di registro, si indica in Armanno Giuseppe (in solido con SAI s.p.a.) la parte obbligata al risarcimento del danno derivante da un fatto costituente reato, nei cui confronti deve essere recuperata l'imposta prenotata a debito.
La sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti ai sensi dell'art. 282 c.p.c., come modificato dalla legge n. 534/95.

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