Un atto d'accusa. Duro, intransigente,
per certi versi spietato. Si tratta del dossier che The Economist
ha dedicato all'Italia: 'Addio, Dolce Vita', è il
titolo che già spiega
tutto.
L'analisi condotta dalla rivista britannica sottolinea come
il "miracolo economico" sia finito da un pezzo:
per molti lo standard di vita peggiora, la posizione della
penisola nelle graduatorie internazionali è umiliante
e le famiglie faticano ad arrivare a fine mese. Non basta,
perché anche il livello di istruzione si abbassa,
mentre sono in crescita l'evasione fiscale e l'illegalità.
La responsabilità? Beh, di sicuro non è dell'euro
o di qualche altro fattore esterno, come la Cina oppure il
terrorismo.
Il male che impedisce all'Italia di tornare protagonista
dell'economia mondiale ha radici profonde - dice John Peet,
il curatore di questo dossier - e non si può quindi
gettare la croce addosso solamente all'ultimo governo.
E' certo però che negli ultimi anni è stato
un susseguirsi di occasioni perdute, valga come esempio la
fine che ha fatto la riforma sul Tfr: necessaria e imprescindibile
fino a pochi giorni fa, ed ora invece rimandata al 2008.
Un quadro così nero che verrebbe voglia di fare le
valigie ed andarsene da quello che una volta si chiamava
il Belpaese, anche se ora qualche dubbio è lecito
su questo appellativo.
Tuttavia, chi in Italia ci vive, ci lavora e ci investe,
non ha dubbi: il Paese ce la farà ancora una volta
a riscattarsi, e non accetterà con stoica sopportazione
il triste destino della decadenza. Nessuno, tra quanti in
Italia vivono, lavorano e investono, si rassegna a far la
fine della Serenissima, la Repubblica di Venezia che dopo
secoli di splendore oggi è ridotta a poco più che
un'attrazione turistica, la fine che The Economist paventa
per l’Italia.
Eppure non c'è più tempo da perdere. Non si
possono più sprecare occasioni: “riformare o
morire”, il monito che giunge dal settimanale britannico è forse
fin troppo drastico, ma chiunque esca vincitore dalla contesa
elettorale del prossimo anno lo dovrà tenere bene
in mente.
ALAN FRIEDMAN
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