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La tutela del socio di minoranza nelle PMI
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LA TUTELA DEL SOCIO DI MINORANZA NELLE PMI


dott. Andrea Melchiorre

Per una sommaria analisi relativa alla tutela dei diritti del socio di minoranza, occorre considerare la prassi internazionale conosciuta con il nome di Squeeze Out. Tale prassi è, a sua volta, strettamente connessa con gli aspetti della Governance societaria condotta dal socio di maggioranza o dal gruppo di maggioranza.

La maggioranza partecipativa, infatti, è strutturalmente connotata dalla funzionalizzazione del proprio investimento in capitale di rischio all’acquisizione della gestione dell’impresa sociale, mentre la minoranza partecipativa, in linea di massima, tende a finalizzare l’investimento in capitale di rischio alla percezione dei dividendi.

Se quella appena illustrata risulta essere l’ossatura teorica di qualsiasi compagine sociale, non bisogna, però, dimenticare che, nella quotidianità della vita commerciale, la funzione dell’investimento in capitale di rischio è spesso mutata dal concreto atteggiarsi dei rapporti tra la società stessa e le imprese a qualsiasi titolo riconducibili ai suoi soci.

In altri termini, sovente, i soci di una S.r.l., a prescindere dalle rispettive quote partecipative, realizzano delle sinergie industriali e commerciali tra la S.r.l. ed altre società o imprese i cui assetti proprietari sono, direttamente o indirettamente, riconducibili agli stessi soci.

Queste brevi considerazioni, unitamente alla consapevolezza di uno stretto legame tra il modello societario a responsabilità limitata e la PMI italiana, muove allo svolgimento di alcune considerazioni in merito alle istanze, accolte nella Riforma Vietti, di tutela del socio di minoranza.

Per meglio chiarire quanto sopra illustrato in termini generali, si consideri la seguente ipotesi: tre industriali operanti nel settore della lavorazione di materie plastiche, costituiscono una società deputata ad effettuare lavorazioni conto terzi e, quindi, a gestire il magazzino dei committenti, mentre le imprese riconducibili ai singoli soci sono imprese che producono e traformano materiale plastico semilavorato.

E’ evidente, nel caso rappresentato, la sovrapposizione parziale delle attività costituenti oggetto delle singole imprese considerate.

Supponiamo, ora, che l’impresa sociale abbia la disponibilità di assets interessanti (magazzini, impianti e, non ultimo, un cospicuo portafogli clienti) e che l’impresa riconducibile alla maggioranza partecipativa stia implementando un piano di espansione.

In questo caso, è evidente che i soci di maggioranza hanno interesse a “fagocitare” l’impresa sociale nel ciclo industriale delle proprie imprese, magari realizzando, a medio o lungo termine, un’incorporazione.

Per dare attuazione al progetto ora illustrato, dunque, può darsi che la maggioranza partecipativa decida di “espellere” dalla compagine sociale il socio di minoranza e intraprenda, a tal fine, una politica di Squeeze Out.

Un primo step, nella realizzazione degli scopi ora rappresentati, dunque, sarà quello di interrompere le sinergie tra la vita industriale della società e le imprese riconducibili al socio di minoranza.

A parte possibili considerazioni sul controllo contrattuale disciplinato dall’art. 2359 n. 3 C.C. e, conseguentemente, dall’art. 2497- sexies congiuntamente all’art. 2497 C.C., in linea di principio, il socio di minoranza non ha alcuna difesa contro l’implementazione di questa prima decisione della maggioranza, ponendosi, essa, nell’alveo della gestione societaria, che, per sua natura, è riservata all’Organo amministrativo (cioè alla longa manu dei soci di maggioranza).

Il socio di minoranza, a questo punto, resta un puro socio investitore e focalizza i suoi interessi nella maturazione dei dividendi.

Continuando nell’analisi del caso prospettato, dunque, il socio di maggioranza potrà “convincere” quello di minoranza ad abbandonare la società, rendendo l’investimento in capitale di rischio poco redditizio (c.d. drop of capital appeal).

A tal fine, i soci di maggioranza potranno non distribuire i dividendi annuali, stabilire remunerazioni eccessive per gli amministratori ovvero impiegare la società per arricchire società o imprese riconducibili ai medesimi soci di maggioranza ( ad esempio stipulando contratti di vendita, fornitura, affitto a basso costo o acquistando merce dalle società collegate al socio di maggioranza ad alto costo).

In questi casi occorrerà muovere dall’analisi, in concreto, degli interessi cui la delibera o decisione dei soci in pregiudizio della minoranza partecipativa vuole dare attuazione.

La tutela della minoranza partecipativa, così, seguirà diverse vie nella possibile diversificazione delle azioni intraprese dalla maggioranza.

Occorre a questo punto distinguere due ipotesi di politiche di Squeeze Out.

La prima è quella di una deviazione dell’income societario a favore degli amministratori o di imprese riconducibili alla maggioranza partecipativa.

Il carattere fondamentale di questa ipotesi risiede nella sua astratta contrarietà all’interesse sociale, in quanto i proventi dell’attività di impresa vengono sottratti alla società e assegnati a terzi soggetti in qualche modo collegati ai soci di maggioranza, con conseguente sussistenza di un conflitto d’interesse da parte di chi esercita la Governance.

La Giurisprudenza internazionale e la Dottrina, concordano, però, nell’ammettere che il socio non abbia un autonomo diritto agli utili e che non ogni decisione in contrasto con gli interressi particolari del socio di minoranza sia affetta da genetica invalidità.

Certamente nessuno potrà negare che la vendita a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato o l’acquisto a prezzi superiori a quelli medi costituisca, in sé, un fatto contrario al superiore interesse sociale, ma si danno ipotesi in cui, la bassa domanda nel contesto economico in cui l’impresa sociale opera sia in grado di giustificare simili operazioni.

Proprio queste considerazioni sembrano aver spinto il Legislatore Riformista ad esigere che il conflitto d’interesse della maggioranza sociale sia qualificato dalla presenza di un danno potenziale ai fini della invalidità della delibera e, però, a prevedere un autonomo ed inalienabile diritto del socio di minoranza di controllare la gestione, il quale, certo, può essere funzionale al reperimento di prove relative all’esistenza di alternative di vendita e di acquisto presenti sul mercato.

Né, oggi, stante la nuova formulazione dell’art. 2479-ter, sembra più sostenibile quella tesi che affermava l’autonomia dell’obbligo di astensione del socio in conflitto d’interessi dalla previsione della impugnabilità della relativa delibera, sul presupposto che l’invalidità dell’atto collegiale poteva essere predicata soltanto in presenza dell’ulteriore elemento del danno potenziale.

Tale tesi, poi, aggiungeva che l’obbligo di astensione fosse sanzionabile mediante l’esclusione del socio dal diritto di votare ad opera del Presidente dell’Assemblea, in adempimento della sua funzione di direzione dei lavori dell’adunanza.

La totale scomparsa dell’obbligo di astensione, dunque, sembra proprio, aver determinato un avanzamento della soglia di tutela dell’interesse sociale: il socio di minoranza ha tutti i poteri per accertare se una delibera posta all’ordine del giorno sia lesiva o meno dell’interesse sociale, quindi, nel caso di conflitto d’interesse della maggioranza soltanto questo positivo accertamento può determinare la sanzione dell’invalidità, altrimenti, e in mancanza di effetti lesivi della delibera proposta, resta l’idea dell’intangibilità del diritto al voto, oggi concepito come condizione fondamentale ed irrinunciabile, per l’adesione al contratto sociale ed il contestuale assoggettamento del socio alle regole maggioritarie.

La seconda ipotesi da valutare è quella relativa alle delibere che, pur non essendo in contrasto con l’interesse della società, siano foriere di conseguenze pregiudizievoli per il socio di minoranza.

L’esempio classico è quello della reiterata mancata distribuzione dei dividendi o dell’aumento di capitale diretto a degradare la posizione del socio investitore da quella di minoranza qualificata a quella di minoranza semplice, ipotesi in cui, anche in astratto, non è configurabile alcun conflitto d’interesse della maggioranza, né alcun danno potenziale per la società.

Tali delibere dell’assemblea [rectius: della sua maggioranza], seguendo l’esempio che ci ha guidato nella disamina fin qui operata, sono chiaramente finalizzate ad incentivare il disinvestimento dell’ormai inutile e scomodo socio di minoranza.

E proprio sull’aspetto funzionale della delibera occorre soffermarsi: la funzione del “deciso” si pone, nell’esigenza di comporre i diversi interessi rappresentati in Assemblea, come giustificazione del “decidere”, sicché l’atto del deliberare non appare giustificato se il contenuto della delibera non mira al raggiungimento di un qualche scopo economico.

Queste considerazioni ci conducono in medias res, infatti, la mancata distribuzione degli utili accertati e maturati, se reiterata, sproporzionata rispetto alle riserve prudenziali della società o non avvenuta in un momento di necessità finanziaria o, ancora, non avvenuta in vista di un futuro aumento di capitale risulterebbe priva di una sua giustificazione economica.

Parimenti privo di giustificazione economica risulterebbe un aumento di capitale che, per entità e tempistica, non lasciasse modo al socio di minoranza di reperire i fondi necessari alla sua sottoscrizione e, conseguentemente, al mantenimento della propria percentuale partecipativa qualificata. Un aumento di capitale di questa portata, infatti, tradirebbe l’intento tipologico del finanziamento della società e manifesterebbe l’intento patologico dello Squeeze Out.

Ma, si badi, non basta l’assenza di giustificazione della delibera perché essa possa essere inquadrabile all’interno di una politica di Squeeze Out, occorrendo, infatti, l’ulteriore requisito dell’effetto discriminatorio, cioè lesivo degli interessi sociali del socio di minoranza (esempio: interesse ai dividendi, interesse a mantenere la propria partecipazione al di sopra di una soglia qualificata etc.).

Proprio il concetto dell’”Ingiustificata discriminazione”, dunque, è stato assunto dalla Giurisprudenza, prima inglese e poi europea, come contenuto dell’ampia categoria dell’Abuso di Maggioranza, figura dalla quale si fa generalmente discendere l’invalidità della delibera che tale abuso ha perpetrato.

Senza ulteriormente soffermarci sulle conseguenze e le problematiche “rimediali” dell’abuso della maggioranza, occorre ora considerare gli strumenti di tutela preventiva della minoranza partecipativa nei confronti della prassi di Squeeze Out.

I Giuristi internazionali ricorrono sovente alla sottoscrizione di patti parasociali che, da una lato, incidono sulla governance imponendo che determinate operazioni siano decise con il consenso del socio di minoranza (es. retribuzione degli amministratori, operazioni commerciali con società affiliate ai soci etc.), dall’altro prevedono ingenti penali o patti di opzione per il caso di violazione di detti patti, mentre assicurano il socio di minoranza dal rischio di un aggiramento del patto mediante vendita, fittizia o meno, delle partecipazioni a terzi, con accordi di “Take along” (patti con cui il socio di maggioranza, in caso di vendita delle proprie partecipazioni, si impegna a trovare un compratore o a comprare lui stesso la quota del socio di minoranza ad un prezzo parametrato su determinati indici).

Nell’ottica della Riforma societaria, poi, è possibile prevedere simili regole addirittura in statuto: ad esempio riservare decisioni in determinate materie alla competenza dell’assemblea validamente deliberante con un quorum che assicuri il consenso del socio di minoranza o semplicemente prevedere un diritto di veto, quale diritto amministrativo particolare del socio di minoranza, in determinate materie.

Nell’ottica di evitare possibili aggiramenti di quanto concordato tra i soci attraverso l’azione diretta dell’Organo amministrativo, la prassi internazionale opta per un Consiglio d’amministrazione in luogo di un amministratore unico, unitamente all’esercizio dei poteri delegati a firma congiunta e alla nomina, da parte del socio di minoranza, di un membro del Consiglio della società o, almeno, di un “Non-Voting Observer” cioè di un uomo di fiducia del socio di minoranza cui vengono notificati date, ore e Ordini del Giorno delle adunanze dell’Organo amministrativo e cui è concesso intervenire alla riunione del Consiglio, ma senza diritto di voto.

Nella riforma delle S.r.l., si ricorda, avere un “Observer” (amministratore o meno) all’interno dell’Organo amministrativo può risultare un ottimo mezzo per consentire al socio che esprime una minoranza qualificata di chiedere la devoluzione della decisione all’assemblea e, quindi, per far valere, senza tema di nullità, eventuali vincoli derivanti alla maggioranza partecipativa dalla sottoscrizione di patti parasociali, anche in considerazione del fatto che, in tali accordi, se è agevole sostenere la validità della prestazione del socio promessa dal socio, non altrettanto può dirsi della validità del fatto degli amministratori promesso dal socio.

dal sito: wwwaltalex.com

 La redazione di megghy.com

 

 
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