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Fallimento: pegno del terzo a favore del creditore non ammissibile al passivo
Cassazione , sez. I, sentenza 25.05.2004 n° 10012
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Il pegno costituito da un terzo a favore del creditore non può essere fatto valere da quest'ultimo nel fallimento del debitore come causa di prelazione relativa al credito verso il debitore stesso.


Cassazione Civile

Sezione I

Sentenza 25 maggio 2004, n. 10012

Svolgimento del processo

Il Banco di Napoli S.p.a., con ricorso in data 12 aprile 1994, propose opposizione allo stato passivo del fallimento di A.C. rivendicando, per il proprio credito di lire 113.608.974, la prelazione riveniente dalla costituzione in pegno di un libretto di risparmio ordinario nominativo recante il saldo attivo apparente di lire 50 milioni, concessa in data 26 giugno 1992 dalla G. e accestiva ad una fideiussione prestata dalla medesima G. in favore del C. - prelazione esclusa invece dal giudice delegato, che il credito aveva ammesso in chirografo.

L'adito tribunale di Lecce, con sentenza del 15 giugno 1998, respinse l'opposizione.

Di contrario avviso L.u la Corte territoriale la quale, con sentenza emessa il 15 giugno 2000, accolse il gravame del Banco e dispose che il suddetto credito fosse ammesso al passivo con la richiesta prelazione pignoratizia (nella sentenza leggesi "con privilegio").

Ricorre per Cassazione la curatela del suddetto fallimento.

Resiste, con controricorso e memoria, il Banco di Napoli.


Motivi della decisione

1. il ricorso della curatela è articolato in Quattro motivi il primo dei quali investe l'intero procedimento nei gradi di merito, e da ultimo la sentenza ora impugnata, con la denuncia di nullità della procura "ad litem" che il Banco avrebbe rilasciato con l'originario atto di opposizione allo stato passivo, nullità che secondo l'assunto sarebbe rilevabile sulla base di una duplice ragione l'una, che detta procura non conteneva menzione alcuna della identità personale, oltre che dei poteri rappresentativi, dei due funzionari sottoscrittori; l'altra, che con la formula "per ogni fase, stato e grado della presente procedura" la procura, rilasciata nell'istanza di ammissione al passivo, era stata evidentemente limitata alla fase conclusiva della "procedura" senza potersi estendere anche al giudizio di gravame, per il quale non era stata rinnovata.

La prima delle suddette ragioni di nullità da corpo ad una questione del tutto nuova, introdotta per la prima volta in questa sede di legittimità. La ricorrente curatela né ha dedotto di aver prospettato al giudice dell'appello tale vizio della procura, né ha denunciato l'omessa pronuncia dello stesso giudice sul punto. Sotto tale profilo il motivo è dunque inammissibile.

L'eventuale nullità del giudizio di primo grado per nullità della procura non si sottrae, infatti, al regime di cui all'art. 161 c.p.c. onde (v. la sentenza di questa Corte n. 9808 del 1997, n. 12168 e n. 12843 del 1998) se non sia stata fatta valere nel giudizio di appello non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità a causa della preclusione derivante appunto dalla norma dell'art. 161 c.p.c. secondo la quale tutti i motivi di nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione (a meno che - e non è il caso di specie - la gravità del vizio dedotto non sia tale da impedire che lo stesso atto che ne è inficiato possa essere assunto nel modello legale della figura, configurandosi così una inesistenza giuridica dell'intero giudizio, rilevabile d'ufficio).

La seconda ragione di nullità è stata correttamente esclusa dalla Corte di merito avverso la cui interpretai: ione della formula "per ogni fase stato e grado n, nel senso che la procura si estendesse al primo grado ed a quelli successivi del giudizio, la ricorrente curatela non ha formulato se non censure generiche, nemmeno correlate alla suddetta interpretazione, e tutte riassunte nell'affermazione che "la Corte aveva omesso di considerare che la procura è un atto formale il quale, per produrre i suoi effetti, necessita di un conferimento secondo modalità ben precise".

Il motivo è dunque per tali ragioni del tutto privo di fondamento.

3. Gli altri motivi di ricorso censurano la pronuncia della Corte salentina tutti per violazione dell'art. 67 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, sotto diversi profili, sul punto della contestualità della garanzia pignoratizia al debito del C., anche attraverso lo specifico addebito alla Corte di aver violato la norma dell'art. 2909 c.c. con accertamenti di fatto contrari a quelli contenuti nella sentenza del tribunale, non impugnata la parte qua.

2.a. Spetta alla Corte di Cassazione, con poteri anche officiosi e nell'esercizio istituzionale del potere di censura degli errori di diritto, dare l'esatta qualificazione giuridica alle questioni dedotte in giudizio, sia a quelle che attengono al rapporto, sostanziale sia a Quelle che attengono al processo, e coma all'azione così all'eccezione, quando le circostanze a tal fine rilevanti siano state compiutamente prospettate dalla parte interessata nella pregressa fase di inerito.

Nel caso di specie, le premesse in fatto sono puntualmente indicate nella sentenza ora impugnata, nel senso che M.G., già fideiussore di Antonio C. verso il Banco di Napoli, costituì in pegno, in favore dello stesso Banco, il libretto di risparmio ordinario nominativo n. 02/ 425731 recante il saldo attivo apparente di lire 50 milioni.

La pretesa del Banco fu di far valere detta garanzia pignoratizia nel fallimento del suo debitore C., richiedendo di essere ammessa al passivo "con la prelazione" ex art. 2741 c.c., comma 2 e art. 2787 c.c. "e coltivando la pretesa medesima con l'opposizione allo stato passivo (art. 98 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 detto Legge Fallimentare) dopo che il giudice delegato aveva (sia pure per ragioni inerenti alla ritenuta revocabilità del pegno) respinto l'istanza, ammettendo il credito in chirografo.

2.b. È il caso di ricordare la funzione del pegno, che è quella di assicurare la prelazione del creditore pignoratizio in sede di espropriazione del bene che ne è oggetto, onde si afferma, ripetendo il testo dell'art. 2787 c.c. (prelazione del creditore pignoratizio), che il pegno attribuisce al creditore il diritto di farsi pagare con prelazione sulla cosa ricevuta in pegno, senza, tuttavia che tale garanzia assorba (costituendone, invece, un rafforzamento) quella generica che al creditore spetta, a norma dell'art. 2740 c.c., su tutti i beni presenti e futuri del debitore. In forza di tale garanzia specifica, "una parte del valore della cosa, corrispondente all'ammontare del credito, esce virtualmente dalla sfera patrimoniale del costituente ed entra in quella del creditore" (in questi termini, icasticamente. Cass. n. 1110 del 1962).

La prelazione si esercita, dunque, sulla cosa oggetto del pegno: nei confronti degli altri creditori del debitore, se il pegno sia stato costituito dal debitore medesimo; nei confronti degli altri creditori del terzo (per i quali la cosa data in pegno, appartenente al costituente, costituisce parte della garanzia generica di cui all'art. 2744 c.c.) se il pegno sia stato costituito dal terzo medesimo a garanzia del debitore di altri.

Deve conseguentemente ritenersi che il pegno costituito da un terzo ( art. 2784 c.c. datore dal pegno) a favore del creditore non può essere fatto valere da quest'ultimo nel fallimento del debitore come causa di prelazione relativa al credito verso il debitore stesso, invero, detta prelazione pignoratizia non trova modo di realizzarsi, nel senso di cui all'art. 2787 c.c., nel fallimento del debitore. Alla massa attiva di tale fallimento, che è costituita dai beni del debitore (art. 42 Legge fallimentare), non è acquisita, infatti, la cosa oggetto del pegno, della quale il terzo costituente non ha perduto né la proprietà né il diritto alla restituzione (qualora il creditore trovi soddisfacimento integrale nel fallimento del debitore).

E dunque, nella sede della verifica dei crediti nel suddetto fallimento del debitore (art. 93 e ss. R.D. 16 marzo 1942, n. 267) come non può esservi luogo a provvedimenti di esclusione della prelazione che discende dalla costituzione del pegno ad opera del terzo, perché detta prelazione non riguarda il fallimento del debitore stesso, così - nella simmetria delle situazioni giuridiche - tale costituzione nemmeno potrebbe essere oggetto di domanda revocatoria (art. 67 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, detto Legge Fallimentare) da parte della curatela di quel fallimento, non sussistendo i presupposti dell'azione (lesione della per candido erodi tortini), che vanno riguardati, ai fini delle azioni revocatole fallimentari, con riferimento ai creditori del debitore fallito.

Si consideri - lo si è già posto in evidenza dinanzi - che la concessione di una garanzia reale ha quell'effetto che viene indicato come lo "scorporare" il bene oggetto dal pegno o dell'ipoteca dal patrimonio del debitore per destinarlo al soddisfacimento del creditore garantito, al quale viene così attribuita, per effetto della costituzione della garanzia stessa e in forza di legge ( art. 2741 c.c.) la "causa di prelazione il che varrà a far prevalere, nel concorso ordinario, (ex art. 510 c.c., comma 2°, art. 542 c.c. e art. 596 c.c.) o nel concorso fallimentare, ex art. 111 c.c., n. 2) il creditore garantito sugli altri e a far si che questo resti soddisfatto con prevalenza sugli altri.

Ed dunque, la revoca ex art. 67 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 della garanzia pignoratizia è inconcepibile, nel fallimento del debitore, quando il pegno sia stato costituito da un terzo» infatti la revoca serva ad impedire il verificarsi dell'effetto tipico e normale della garanzia descritto dinanzi e ad escludere che nel fallimento al quale la cosa sia acquisita come parte dell'attivo, per essere destinata al soddisfacimento del creditori - cioè nel fallimento del debitore -, venga esclusa la prelazione del creditore pignoratizia, così, che sulla cosa già oggetto del pegno possano soddisfarsi in egual grado tutti i creditori concorsuali. La revocatoria tende, invero, al ristabilimento della "par condicio", e perciò è fatto che riguarda i creditori del costituente, il cui atto dispositivo (la concessione della garanzia) viene in rilievo nel sistema revocatorio nell'interessi dei suoi creditori; è in favore di questi che opera, appunto, la revocatoria ordinaria ( art. 2901 c.c., comma 2) e tutto il sistema dell'inefficacia "de jure" e della revocabilità (artt. 64 e 67 R.D. 16 marzo 1942, n. 267) nel caso di fallimento del costituente medesimo.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza cassata.

Può emettersi pronuncia nel marito ex art. 384 c.p.c. nel senso del rigetto dell'opposizione, per l'esclusione (non spettanza) della prelazione pignoratizia pretesa dal Banco.

Appare equo che restino interamente compensate tra le parti aia le spese dei due gradi di merito, sia quelle del presente giudizio di Cassazione.


P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel inerito, rigetta l'opposizione allo stato passivo proposta dal Banco di Napoli e dichiara che a questo non spetta la prelazione pignoratizia nel fallimento di A.C.. Compensa le spese dell'intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della corte di Cassazione, il 10 febbraio 2004.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2004.

 La redazione di megghy.com

 
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