Cassazione
Sezione Terza Civile
Sentenza n. 4657 del 03/03/2005
(Presidente: A. Giuliano -Relatore: A. Talevi)
Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo
è esposto come segue.
“Con atto di citazione notificato il 25-26.10.2004,
D.P. e A.M. convenivano in giudizio avanti al Tribunale di
Roma l’A.T.A.C., l’Ascoroma (ora Le Assicurazioni
di Roma) e A.Me., chiedendone la condanna al risarcimento
dei danni subiti in conseguenza dell’incedente stradale
avvenuto in Roma il 24.10.1992, allorché l’autobus
appartenente alla prima convenuta, assicurato dalla seconda
e condotto dal terzo aveva invaso la opposta corsia di marcia
investendo l’autovettura Fiat 126 di proprietà
di A.M. e condotta da D.P..
Mentre A.Me. rimaneva contumace, le società convenute
si costituivano opponendosi alla domanda. Inoltre l’
A.T.A.C. chiedeva in via riconvenzionale il risarcimento dei
danni a sua volta subiti e a tal fine otteneva autorizzazione
a chiamare in giudizio l’Intercontinentale (ora incorporata
nella Winterthur), assicuratrice dell’auto della A.M..
Questa società si costituiva contestando la domanda
proposta nei suoi confronti e chiedendo la condanna dell’
A.T.A.C. a rivalerla di quanto corrisposto a S.P., trasportata
a bordo della Fiat 126.
Istruita la causa, il Tribunale adito, con sentenza in data
11.12.1997, 13.2.1998, addebitava la responsabilità
dell’incidente per il 40% ad A.Me. e per il 60% alla
D.P.; quindi condannava i convenuti a pagare £. 557.350.000
a favore di quest’ultima e di £.688.000 a favore
della A.M., oltre interessi legali dalla pubblicazione della
sentenza e rifusione del 50% delle spese di lite; inoltre
condannava la D.P., la A.M. e l’Intercontinentale a
pagare all’A.T.A.C. £. 3.720.000, oltre interessi
legali dalla pubblicazione della sentenza e rifusione del
50% delle spese di lite.
La D.P. e la A.M. appellavano con atto notificato il 20.9-5.10.1998
lamentando con tre motivi l’erroneità della sentenza
impugnata, di cui chiedevano la riforma con declaratoria di
responsabilità esclusiva della controparte e liquidazione
dei danni rispettivamente subiti in misura più elevata.
Mentre A.Me. rimaneva contumace anche in questo grado, l’A.T.A.C.
e Le Assicurazioni di Roma si costituivano sostenendo l’infondatezza
del gravame e chiedendone il rigetto. Inoltre la seconda proponeva
appello incidentale chiedendo venisse dichiarata la responsabilità
esclusiva di D.P..
Anche la Winterthur proponeva appello incidentale, ma per
associarsi a quello principale, e, quindi, chiedere la condanna
dell’A.T.A.C. a rimborsarle quanto dalla istante versato
alla trasportata”.
Con sentenza 28.3-19.4.2000 la Corte d’Appello di Roma
decideva come segue:
“…definitivamente pronunciando sugli appelli
come in atti proposti avverso la sentenza resa tra le parti
dal Tribunale di Roma in data 11.12.1997-13.2.1998 così
provvede:
1) Rigetta l’appello principale di D.P. e di A.M. e
l’appello incidentale delle Assicurazioni di Roma;
2) In parziale accoglimento dell’appello incidentale
della Winterthur, che rigetta nel resto, condanna l’A.T.A.C.
a pagare alla medesima la somma di £. 20.000.000 oltre
agli interessi della domanda al saldo;
3) Dichiara interamente compensate tra tutte le parti le
spese del grado”.
Contro questa decisione hanno proposto ricorso principale
D.P. e A.M..
Ha resistito con controricorso l’A.T.A.C. S.p.a., già
A.T.A.C..
Ha resistito con controricorso anche la parte: “Le
Assicurazioni di Roma…” (Mutua Assicuratrice Comunale
Romana).
Ha resistito con controricorso proponendo anche “ricorso
incidentale condizionato ex art. 371 2° comma c.p.c. “la
Winterthur Assicurazioni” S.p.a..
Contro detto ricorso incidentale ha proposto controricorso
la predetta parte “Le Assicurazioni di Roma (Mutua Assicuratrice
Comunale Romana), la quale ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione
Anzitutto va disposta la riunione dei ricorsi supra citati.
Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il primo motivo,
denunciano “violazione degli artt. 115 116 c.p.c., arbitraria
ed erronea interpretazione delle risultanza istruttorie”,
esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue.
La dinamica della sentenza è stata ricostruita sulla
base del rapporto dei Carabinieri e dei rilevamenti da essi
eseguiti, nonché dalla dichiarazioni dell’unico
teste L.L.. Le dichiarazioni rese dalla teste all’udienza
non sono diverse da quelle rese ai Carabinieri.
Ella, già nella prima dichiarazione, aveva affermato
che la ricorrente frenava a causa dell’invasione di
marcia del mezzo A.T.A.C.. Dalle risultanze istruttorie è
emerso che D.P. marciava ad una velocità moderatissima
ed è stata trascinata dall’autobus, che percorreva
la strada in salita, per ben 10 metri; i giudicanti non hanno
nemmeno tenuto conto della velocità del mezzo. In entrambi
i gradi di giudizio si ribadisce l’ipotesi che lo sbandamento,
ipotesi secondo loro confermata dalle foto, perché
la macchina oltre ad essere danneggiata anteriormente lo è
anche nella parte laterale sinistra; deduzione illogica ed
infondata in quanto l’autovettura veniva urtata anteriormente
e trascinata per oltre 10 metri, scaraventata contro un albero;
il danneggiamento laterale altro non era che la conseguenza
dell’urto posteriore e piegamento del tetto. I giudicanti,
non avendo tenuto conto della velocità di D.P., della
frenata dovuta all’invasione del proprio senso di marcia,
hanno distorto la dinamica del sinistro. Non si è nemmeno
tenuto conto dello stato dei luoghi. La testimonianza di A.Me.
conferma che l’autovettura non ha sbandato. Dovrebbe,
A.Me., spiegare in base a quale principio una macchina che
percorre la strada in discesa, dopo l’urto, riesce a
percorrere oltre 7 metri in salita (sua stessa ammissione)
visto che lo stesso percorreva la strada a velocità
moderatissima. A.Me. ha mentito spudoratamente, ha negato
di aver invaso l’opposta corsia di marcia, da un attento
esame dello stato dei luoghi è palese che un automezzo,
per affrontare la curva in questione, deve per forza invadere
la corsia opposta.
La Corte d’Appello evidenzia che l’ipotesi di
sbandamento potrebbe essere confermata dal danneggiamento
laterale della Fiat 126, circostanza che non emerge da nessun
atto e tantomeno dalle foto, mentre è vero che le parti
danneggiate sono parte anteriore e tettino e parte posteriore.
L’addebito della responsabilità dell’incidente,
a carico di D.P., pari al 60%, non è stato motivato,
come previsto dall’art. 2054.
Il motivo non può essere accolto in quanto la motivazione
contenuta nell’impugnata decisione è sufficiente
(anche se in taluni punti parzialmente implicita), logica,
non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
E’ opportuno aggiungere che le doglianze esposte dalle
ricorrenti, nella misura in cui si basano su specifiche risultanze
processuali debbono ritenersi inammissibili prima ancora che
prive di pregio per violazione del principio di autosufficienza
del ricorso in quanto non riportano ritualmente il contenuto
delle risultanza stesse (“Nel giudizio di legittimità,
il ricorrente che deduce l’omessa o insufficiente motivazione
della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione
di alcune risultanza probatorie ha l’onere, in considerazione
del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione,
di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non
(o mal) valutate, nonché di indicare le ragioni del
carattere decisivo delle stesse”); v. tra le altre Cass.
N. 2838 del 25/03/1999, Cass.n. 3284 del 05/03/2003, e Cass.
N. 14262 del 28/07/2004; cfr. Cass. A SEZ. U. n. 8561 del
16/06/2003). Quanto agli asseriti vizi logici, occorre rilevare
che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione,
deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5
cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice
di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile
il mancato o deficiente esame dei punti decisivi della controversia,
e non può invece consistere in un apprezzamento dei
fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla
parte perché la citata norma non conferisce alla Corte
di Cassazione il potere di valutare il merito della causa,
ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale
e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione
fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare
le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne
le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza,
e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute
idonee a dimostrare i fatti in discussione”
(Cass. S.U. n. 5802 dell’11/06/1998; v. inoltre, tra
le successive: Cass. N. 10406 del 29/05/2004, Cass. n. 8523
del 05/05/2004; e Cass. n. 1025 del 22/01/2004); nella specie
le doglianze, al di là della loro formale enunciazione,
consistono in sostanza in una diversa valutazione in ordine
alla scelta, all’interpretazione, all’attendibilità
ed alla concludenza delle risultanze istruttorie idonee a
chiarire i fatti in contestazione, e non costituiscono quindi
rituali motivi di ricorso. Quindi anche le doglianze concernenti
asseriti vizi logici debbono ritenersi inammissibili prima
ancora che prive di pregio.
Il primo motivo va quindi respinto.
Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il secondo motivo,
denunciano “violazione degli artt. 1223, 2043 e 2056
c.c., erronea valutazione del danno ed insufficiente liquidazione”
esponendo le seguenti doglianze. I giudici di prime e seconde
cure non hanno tenuto conto della grave menomazione fisica
che ha inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività
lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità
di guadagno e di produzione di ricchezza. Dall’elaborato
del C.T.U. si evince chiaramente, punto 7, che i postumi impediscono
del tutto lo svolgimento delle attività lavorative
esplicate dalla giovane, anche se in modo non continuativo;
la periziando non è in grado di attendere ad altre
attività lavorative, date le sue gravi condizioni neuropsichiche.
Nella liquidazione del danno patrimoniale alla persona il
giudice deve accertare in base alle prove fornite dall’attore
danneggiato ed avvalendosi anche delle presunzioni semplici
per il danno da invalidità permanente (che si proietta
nel futuro) in quale misura la menomazione fisica e psichica
ha inciso sulla capacità di svolgimento della attività
lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità
di guadagno. Il danneggiato ha ampiamente provato che la menomazione
fisica e psichica ha inciso sulla capacità lavorativa
specifica, lo stesso C.T.U. e lo specialista incaricato da
quest’ultimo hanno dichiarato che la periziando non
è in grado di effettuare attività che richiedano
la necessità di scelte autonome. Per quanto concerne
la liquidazione le doglianze precisate dalla ricorrente nell’atto
di appello, pur essendo fondate, sono state tutte disattese;
la liquidazione deve essere fatta non come mero calcolo matematico,
ma come valutazione equitativa in riferimento alla gravità
del danno. Inoltre, i danni materiali liquidati ad A.M. sono
notevolmente inferiori a quelli indicati, la prolungata custodia
dell’autoveicolo è stata determinata da esigenza
strettamente cautelative, affinché essa potesse essere
messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.
La Corte di Appello, in merito alle conclusioni dell’appellante,
riferisce che questi non spiegano quali conclusioni trarne,
nessuno ha notato che la comparsa conclusionale, pur se regolarmente
depositata, come risulta dal fascicolo, è stata sottratta.
Il motivo di ricorso deve ritenersi fondato nella sua parte
essenziale.
Questa Corte Suprema, recentemente, ha più volte affermato
che anche una casalinga può trovarsi a subire un danno
di natura patrimoniale qualora si veda in misura maggiore
o minore privata per il futuro della possibilità di
svolgere l’attività in questione (appunto quella
di casalinga).
Vanno ricordate in particolare le seguenti decisioni:
A) “La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato,
svolge purtuttavia un’attività suscettibile di
valutazione economica, sicchè va legittimamente inquadrato
nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile
autonomamente rispetto al danno biologico) quello subito in
conseguenza della riduzione della propria capacità
lavorativa. Il fondamento di tale diritto, specie quando la
casalinga sia componente di un nucleo familiare legittimo
(ma anche quando lo sia in riferimento ad un nucleo di convivenza
comunque stabile) è difatti, pur sempre di natura costituzionale,
ma riposa sui principi di cui agli artt. 4 e 37 della Costituzione
(che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma
di lavoro, e i diritti della donna lavoratrice), mentre il
fondamento della risarcibilità del danno biologico
si fonda sul diverso principio della tutela della salute”
(Cass. n. 15580 dell’11/12/2000).
B) “La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato,
svolge, cionondimeno, un’attività suscettibile
di valutazione economica, che non si esaurisce nell’espletamento
delle sole faccende domestiche, ma si estende al coordinamento,
“lato sensu”, della vita familiare, così
che costituisce danno patrimoniale (come tale autonomamente
risarcibile rispetto al danno biologico) quello che la predetta
subisca in conseguenza della riduzione della propria capacità
lavorativa, e che sussiste anche nel caso in cui ella sia
solita affidare la parte materiale del proprio lavoro a persone
estranee. Consistendo il danno “de quo” nella
perdita di una situazione di vantaggio, e non rimanendo escluso
neanche dalla mancata sopportazione delle spese sostitutive,
legittimo risulta il riferimento, nel relativo procedimento
di liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare,
con gli opportuni adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza
dei compiti espletati dalla casalinga” (Cass. n. 10923
del 06/11/1997).
C) “Il danno patrimoniale come conseguenza della riduzione
della capacità lavorativa generica di una persona è
risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se
vi è la prova che il soggetto leso svolgesse, o fosse
presumibilmente in procinto di svolgere un’ attività
lavorativa produttiva di reddito, sia pure figurativo (come
nel caso della casalinga)”
(Cass. n. 10015 del 15/11/1996).
Di fronte a tale filone interpretativo giurisprudenziale
parte della dottrina ha anzitutto rilevato che d esso (ed
in particolare dalla sentenza n. 15580/00) sembra emergere
la generalizzata risarcibilità di detta asserita componente
del danno patrimoniale, mentre, sulla base dell’art.
2043 c.c. ( e dalle altere norme in materia) deve ritenersi
che debbono essere risarcite solo le voci di danno effettivamente
esistenti e provate.
Parte della dottrina ritiene poi che non si possa parlare
di una capacità lavorativa specifica della casalinga
piochè l’attitudine al lavoro domestico non si
riconnette ad un vero e proprio rapporto di lavoro (retribuito);
e poiché inoltre detto lavoro è in ogni caso
svolto a titolo gratutito e quindi non può dar luogo
ad un guadagno suscettibile di essere perduto oppure diminuito.
Da ciò deriverebbe che la ritenuta risrcibilità
del danno in questione comporterebbe delle duplicazioni risarcitorie
in quanto la perdita della capacità lavorativa generica
è già considerata nell’ambito della liquidazione
del danno biologico.
Secondo talune tesi infine la perdita o la diminuzione dell’idoneità
a svolgere il lavoro casalingo può talora comportare
delle ripercussioni di ordine patrimoniale ma solo esclusivamente
sotto il profilo del danno emergente, ed unicamente nell’eventualità
che si renda necessario il ricorso ad un aiuto esterno. Da
ciò deriverebbe la non configurabilità del danno
emergente nel caso che il soggetto danneggiato avesse affidato
detto lavoro a terze persone già prima del sinistro.
Non sembra che tali critiche riescano ad inficiare la tesi
giurisprudenziale sopra esposta (se esattamente interpretata).
Quanto alla necessità che la sussistenza di un danno
effettivo debba essere in concreto provata (in conformità
con le regole generali sostanziali e processuali in questione;
e quindi, tra l’altro, anche con la possibilità
del ricorso per presunzioni) basta rilevare che la cosa è
certamente indubbia e che non risulta essere stata messa in
discussione (neppure dalla pronuncia n. 15580/00, se ben interpretata).
Con riferimento poi al fatto che la casalinga, pur non percependo
reddito monetizzato, svolge purtuttavia un’attività
suscettibile di valutazione economica, basta rilevare che
ciò è incontestabile; e la cosa appare in tutta
la sua evidenza se si considera che il venir meno della sua
opera può (pacificamente) comportare il sorgere di
un danno (oltre che morale anche) patrimoniale per i familiari
(Cfr., tra le tante, Cass. n. 11453 del 03/11/1995: “Il
diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta,
a norma dell’art. 2043 cod.civ., ai congiunti di persona
deceduta a causa di altrui fatto illecito, richiede l’accertamento
che i medesimi siano stati privati di utilità economiche
di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente,
avrebbero continuato a fruire in futuro. Pertanto, quello
subito dal marito e dal figlio minore per il decesso, a seguito
dell’altrui fatto illecito, del congiunto, (rispettivamente
moglie e madre), costituisce, anche nel caso in cui quest’ultimo
fosse stato privo di un effettivo reddito personale, danno
patrimoniale risarcibile, concretantesi nella perdita, da
parte dei familiari, di una serie di prestazioni economicamente
valutabili, attinenti alla cura, all’educazione ed alla
assistenza, cui il marito ed il figlio avevano ed hanno diritto
nei confronti della rispettiva moglie e madre nell’ambito
del rapporto familiare”; cfr., inoltre, Cass. n. 8970
del 10/09/1998: “Il danno patrimoniale subito dai familiari
di una casalinga deceduta in conseguenza dell’altrui
atto illecito, e consistente nella perdita delle prestazioni
domestiche erogate dalla propria congiunta, può essere
legittimamente liquidato facendo riferimento non al reddito
di una collaboratrice domestica, ma al tripli della pensione
sociale”.
A questo punto si impongono due precisazioni:
A) La radicale evoluzione dei costumi non consente più
di confinare la problematica in questione alla casalinga,
essendo ormai ben possibile il sorgere del danno in questione
anche con riferimento ad una donna che svolga anche attività
di casalinga e con riferimento ad un danneggiato di sesso
maschile.
B) Stranamente finora il lavoro domestico è stato
considerato prevalentemente con riferimento all’utilità
che ne ricavano altri, ed in particolare i familiari del soggetto
in questione; e non con l’utilità che ne ricava
direttamente quest’ultimo, ma è evidente che
se un soggetto abituato a svolgere detto lavoro solo (ovvero
anche) in proprio favore (si pensi ad una figura sempre più
comune: il cosiddetto “single”; ed in particolare
ad un “sigle” che pulisce il proprio appartamento,
lava e stira la propria biancheria, cucina i suoi pasti ecc.,
senza ricorrere a “colf” ristoranti, lavanderie,
ovvero a soluzioni più radicali come alberghi, pensioni,
ecc.) viene a trovarsi privato in tutto o in parte della propria
capacità a provvedere a dette sue necessità
insorge un evidente danno emergente (tipicamente patrimoniale)
derivante dal fatto che dovrà cominciare a ricorrere
(in misura maggiore o minore a seconda dell’invalidità
subita) a “colf”, ristoranti, lavanderie, ecc.;
quindi, dato che oggi, una percentuale sempre maggiore di
persone (anche se con attività lavorativa retribuita)
dedica parte delle proprie energie lavorative a faccende domestiche,
una sopravvenuta incapacità di attendere alle medesime
comporta di regola un danno patrimoniale sotto il profilo
del danno emergente.
Non può peraltro escludersi che detta incapacità
comporti anche un lucro cessante; basta pensare infatti, ad
es., che nell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.)
la prestazione lavorativa può (pacificamente) consistere
anche in lavori domestici (purchè – secondo una
tesi – si riflettano sull’andamento dell’impresa
accrescendone la produttività) e che ai sensi del primo
comma della norma predetta i diritti (anche di contenuto più
tipicamente patrimoniale; e quindi inerenti ad introiti che
in caso di cessazione danno luogo ad un tipico caso di lucro
cessante) del partecipante all’impresa medesima sono
proporzionali alla quantità ed alla qualità
del lavoro prestato ; e quindi sono suscettibili di diminuzione
qualora la capacità di lavoro diminuisca (v. in particolare
il primo comma dell’art. 230 bis cit.: “Salvo
che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che
presta in modo continuativo la sua attività di lavoro
nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al
mantenimento secondo la condizione familiare della famiglia
e partecipa agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati
con essi nonchè agli incrementi dell’azienda,
anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato…..”.
Da quanto sopra esposto emerge altresì che l’insorgere
di un danno patrimoniale non è in linea generale (salve
le eventuali eccezioni) configurabile se il soggetto danneggiato,
già prima dell’incidente, non svolgeva lavori
domestici (va rilevato che l’espressione “lavori
domestici” va intesa in senso ampio e quindi comprensivo
anche di quell’attività di “coordinamento,
‘lato sensu’, della vita familiare”, di
cui ha parlato la sopra citata Cass. n. 10923 del 06/11/1997)
in quanto questi erano integralmente devoluti a, o per altre
ragioni; mentre è invece eccezionalmente configurabile
nell’ipotesi, indubbiamente infrequente, che la persona
danneggiata affermi e pio riesca a dimostrare che all’epoca
del sinistro era in procinto di mutare le proprie abitudini
(per un cambiamento delle proprie condizioni economiche o
per altre ragioni) nel senso che stava per iniziare a provvedere
personalmente, in tutto o in parte, a lavori prima demandati
a colf.
Emerge inoltre che in linea generale (fatte salve le eccezioni
come quella sopra citata di cui all’art. 230 bis cit.)
un danno patrimoniale del danneggiato è possibile solo
in relazione ai lavori domestici svolti in suo favore; mentre
con riferimento ai lavori svolti gratuitamente in favore di
altri, gli eventuali soggetti danneggiati possono essere eventualmente
solo questi ultimi.
In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto:
“In tema di invalidità permanente o temporanea
il soggetto che perde in tutto od in parte la propria capacità
di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente
svolti in proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente
danno patrimoniale provato (danno emergente ed, eventualmente,
anche lucro cessante)”.
Nella fattispecie, la Corte di Appello di Roma non ha seguito
detto principio di diritto.
Inoltre la motivazione appare insufficiente con riferimento
alla possibile attività lavorativa futura di S.P.;
tra l’altro, in quanto, dopo aver dato atto della possibilità
di ricorso a presunzioni e del fatto che il C.T.U. definisce
l’infortunata “…casalinga con attività
lavorativa saltuaria e varia…” omette di motivare
in modo sufficiente sul punto (specie alla luce del seguente
principio di diritto: “In tema di risarcimento del danno
alla persona, la riduzione della capacità lavorativa
di un soggetto che svolge vari e saltuari lavori con qualificati,
o dell’operaio non specializzato, non è assimilabile
alla incapacità lavorativa generica, liquidabile solo
nell’ambito del danno biologico, ma è pur sempre
fonte di danno patrimoniale, da valutarsi considerando quale
sia stata in concreto la riduzione della capacità lavorativa
specifica del soggetto leso, che può determinarsi tenendo
conto della varietà di attività o di lavorazioni
che il soggetto può essere chiamato a compiere, in
riferimento alla situazione lavorativa specifica, ambientale
e personale, del soggetto stesso”; v. Cass. n. 18945
dell’11/12/2003).
Il secondo motivo di ricorso (avente ad oggetto, esplicitamente
od implicitamente, tutti i punti di cui sopra) va dunque accolto
(nella misura sopra indicata, apparendo invece privo di pregio
nel resto).
La ricorrente incidentale Winterthur Assicurazioni S.p.a.,
con l’unico motivo di “ricorso incidentale condizionato
ex. art. 360 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 1916
c.c.” espone le seguenti doglianze. La Winterthur Assicurazioni
S.p.a., “…nell’ipotesi di accoglimento del
motivo di ricorso principale, incentrato sull’errata
valutazione delle prove raccolte in sede processuale in tema
di responsabilità per la causazione del sinistro…”,
propone ricorso incidentale condizionato, “…invocando
la riforma del capo dell’impugnata sentenza relativo
all’azione di regresso esercitata dalla società
ricorrente nei confronti delle controricorrenti A.T.A.C. e
Le assicurazioni di Roma, per il risarcimento del danno corrisposto
alla sig.ra S.P. trasportata sull’autovettura delle
ricorrenti principali…”.
Dato che il primo motivo del ricorso principale è
stato respinto, il ricorso incidentale deve ritenersi assorbito.
In conclusione l’impugnata decisione va cassata in
relazione al motivo accolto (il secondo del ricorso principale);
e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte di Appello
di Roma.
A detto Giudice di rinvio va rimessa anche la decisione sulle
spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo motivo del
ricorso principale; rigetta il primo mitivo di detto ricorso;
dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa in relazione
l’impugnata sentenza; e rinvia la causa, anche per la
decisione sulle spese del giudizio di cassazione, ad altra
sezione della Corte di Appello di Roma.
Così deciso a Roma, 3.12.2004
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