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Risarcimento del danno patrimoniale, estensione della nozione di casalinga

Cassazione , sez. III civile, sentenza 03.03.2005 n° 4657
Cassazione


Sezione Terza Civile


Sentenza n. 4657 del 03/03/2005


(Presidente: A. Giuliano -Relatore: A. Talevi)


Svolgimento del processo

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con atto di citazione notificato il 25-26.10.2004, D.P. e A.M. convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Roma l’A.T.A.C., l’Ascoroma (ora Le Assicurazioni di Roma) e A.Me., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’incedente stradale avvenuto in Roma il 24.10.1992, allorché l’autobus appartenente alla prima convenuta, assicurato dalla seconda e condotto dal terzo aveva invaso la opposta corsia di marcia investendo l’autovettura Fiat 126 di proprietà di A.M. e condotta da D.P..

Mentre A.Me. rimaneva contumace, le società convenute si costituivano opponendosi alla domanda. Inoltre l’ A.T.A.C. chiedeva in via riconvenzionale il risarcimento dei danni a sua volta subiti e a tal fine otteneva autorizzazione a chiamare in giudizio l’Intercontinentale (ora incorporata nella Winterthur), assicuratrice dell’auto della A.M..

Questa società si costituiva contestando la domanda proposta nei suoi confronti e chiedendo la condanna dell’ A.T.A.C. a rivalerla di quanto corrisposto a S.P., trasportata a bordo della Fiat 126.

Istruita la causa, il Tribunale adito, con sentenza in data 11.12.1997, 13.2.1998, addebitava la responsabilità dell’incidente per il 40% ad A.Me. e per il 60% alla D.P.; quindi condannava i convenuti a pagare £. 557.350.000 a favore di quest’ultima e di £.688.000 a favore della A.M., oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza e rifusione del 50% delle spese di lite; inoltre condannava la D.P., la A.M. e l’Intercontinentale a pagare all’A.T.A.C. £. 3.720.000, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza e rifusione del 50% delle spese di lite.

La D.P. e la A.M. appellavano con atto notificato il 20.9-5.10.1998 lamentando con tre motivi l’erroneità della sentenza impugnata, di cui chiedevano la riforma con declaratoria di responsabilità esclusiva della controparte e liquidazione dei danni rispettivamente subiti in misura più elevata.

Mentre A.Me. rimaneva contumace anche in questo grado, l’A.T.A.C. e Le Assicurazioni di Roma si costituivano sostenendo l’infondatezza del gravame e chiedendone il rigetto. Inoltre la seconda proponeva appello incidentale chiedendo venisse dichiarata la responsabilità esclusiva di D.P..

Anche la Winterthur proponeva appello incidentale, ma per associarsi a quello principale, e, quindi, chiedere la condanna dell’A.T.A.C. a rimborsarle quanto dalla istante versato alla trasportata”.

Con sentenza 28.3-19.4.2000 la Corte d’Appello di Roma decideva come segue:

“…definitivamente pronunciando sugli appelli come in atti proposti avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Roma in data 11.12.1997-13.2.1998 così provvede:

1) Rigetta l’appello principale di D.P. e di A.M. e l’appello incidentale delle Assicurazioni di Roma;

2) In parziale accoglimento dell’appello incidentale della Winterthur, che rigetta nel resto, condanna l’A.T.A.C. a pagare alla medesima la somma di £. 20.000.000 oltre agli interessi della domanda al saldo;

3) Dichiara interamente compensate tra tutte le parti le spese del grado”.

Contro questa decisione hanno proposto ricorso principale D.P. e A.M..

Ha resistito con controricorso l’A.T.A.C. S.p.a., già A.T.A.C..

Ha resistito con controricorso anche la parte: “Le Assicurazioni di Roma…” (Mutua Assicuratrice Comunale Romana).

Ha resistito con controricorso proponendo anche “ricorso incidentale condizionato ex art. 371 2° comma c.p.c. “la Winterthur Assicurazioni” S.p.a..

Contro detto ricorso incidentale ha proposto controricorso la predetta parte “Le Assicurazioni di Roma (Mutua Assicuratrice Comunale Romana), la quale ha anche depositato memoria.


Motivi della decisione


Anzitutto va disposta la riunione dei ricorsi supra citati.

Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il primo motivo, denunciano “violazione degli artt. 115 116 c.p.c., arbitraria ed erronea interpretazione delle risultanza istruttorie”, esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue. La dinamica della sentenza è stata ricostruita sulla base del rapporto dei Carabinieri e dei rilevamenti da essi eseguiti, nonché dalla dichiarazioni dell’unico teste L.L.. Le dichiarazioni rese dalla teste all’udienza non sono diverse da quelle rese ai Carabinieri.

Ella, già nella prima dichiarazione, aveva affermato che la ricorrente frenava a causa dell’invasione di marcia del mezzo A.T.A.C.. Dalle risultanze istruttorie è emerso che D.P. marciava ad una velocità moderatissima ed è stata trascinata dall’autobus, che percorreva la strada in salita, per ben 10 metri; i giudicanti non hanno nemmeno tenuto conto della velocità del mezzo. In entrambi i gradi di giudizio si ribadisce l’ipotesi che lo sbandamento, ipotesi secondo loro confermata dalle foto, perché la macchina oltre ad essere danneggiata anteriormente lo è anche nella parte laterale sinistra; deduzione illogica ed infondata in quanto l’autovettura veniva urtata anteriormente e trascinata per oltre 10 metri, scaraventata contro un albero; il danneggiamento laterale altro non era che la conseguenza dell’urto posteriore e piegamento del tetto. I giudicanti, non avendo tenuto conto della velocità di D.P., della frenata dovuta all’invasione del proprio senso di marcia, hanno distorto la dinamica del sinistro. Non si è nemmeno tenuto conto dello stato dei luoghi. La testimonianza di A.Me. conferma che l’autovettura non ha sbandato. Dovrebbe, A.Me., spiegare in base a quale principio una macchina che percorre la strada in discesa, dopo l’urto, riesce a percorrere oltre 7 metri in salita (sua stessa ammissione) visto che lo stesso percorreva la strada a velocità moderatissima. A.Me. ha mentito spudoratamente, ha negato di aver invaso l’opposta corsia di marcia, da un attento esame dello stato dei luoghi è palese che un automezzo, per affrontare la curva in questione, deve per forza invadere la corsia opposta.

La Corte d’Appello evidenzia che l’ipotesi di sbandamento potrebbe essere confermata dal danneggiamento laterale della Fiat 126, circostanza che non emerge da nessun atto e tantomeno dalle foto, mentre è vero che le parti danneggiate sono parte anteriore e tettino e parte posteriore.

L’addebito della responsabilità dell’incidente, a carico di D.P., pari al 60%, non è stato motivato, come previsto dall’art. 2054.

Il motivo non può essere accolto in quanto la motivazione contenuta nell’impugnata decisione è sufficiente (anche se in taluni punti parzialmente implicita), logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.

E’ opportuno aggiungere che le doglianze esposte dalle ricorrenti, nella misura in cui si basano su specifiche risultanze processuali debbono ritenersi inammissibili prima ancora che prive di pregio per violazione del principio di autosufficienza del ricorso in quanto non riportano ritualmente il contenuto delle risultanza stesse (“Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che deduce l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanza probatorie ha l’onere, in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non (o mal) valutate, nonché di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse”); v. tra le altre Cass. N. 2838 del 25/03/1999, Cass.n. 3284 del 05/03/2003, e Cass. N. 14262 del 28/07/2004; cfr. Cass. A SEZ. U. n. 8561 del 16/06/2003). Quanto agli asseriti vizi logici, occorre rilevare che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame dei punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione”

(Cass. S.U. n. 5802 dell’11/06/1998; v. inoltre, tra le successive: Cass. N. 10406 del 29/05/2004, Cass. n. 8523 del 05/05/2004; e Cass. n. 1025 del 22/01/2004); nella specie le doglianze, al di là della loro formale enunciazione, consistono in sostanza in una diversa valutazione in ordine alla scelta, all’interpretazione, all’attendibilità ed alla concludenza delle risultanze istruttorie idonee a chiarire i fatti in contestazione, e non costituiscono quindi rituali motivi di ricorso. Quindi anche le doglianze concernenti asseriti vizi logici debbono ritenersi inammissibili prima ancora che prive di pregio.

Il primo motivo va quindi respinto.

Le ricorrenti principali D.P. e A.M., con il secondo motivo, denunciano “violazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 c.c., erronea valutazione del danno ed insufficiente liquidazione” esponendo le seguenti doglianze. I giudici di prime e seconde cure non hanno tenuto conto della grave menomazione fisica che ha inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno e di produzione di ricchezza. Dall’elaborato del C.T.U. si evince chiaramente, punto 7, che i postumi impediscono del tutto lo svolgimento delle attività lavorative esplicate dalla giovane, anche se in modo non continuativo; la periziando non è in grado di attendere ad altre attività lavorative, date le sue gravi condizioni neuropsichiche. Nella liquidazione del danno patrimoniale alla persona il giudice deve accertare in base alle prove fornite dall’attore danneggiato ed avvalendosi anche delle presunzioni semplici per il danno da invalidità permanente (che si proietta nel futuro) in quale misura la menomazione fisica e psichica ha inciso sulla capacità di svolgimento della attività lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno. Il danneggiato ha ampiamente provato che la menomazione fisica e psichica ha inciso sulla capacità lavorativa specifica, lo stesso C.T.U. e lo specialista incaricato da quest’ultimo hanno dichiarato che la periziando non è in grado di effettuare attività che richiedano la necessità di scelte autonome. Per quanto concerne la liquidazione le doglianze precisate dalla ricorrente nell’atto di appello, pur essendo fondate, sono state tutte disattese; la liquidazione deve essere fatta non come mero calcolo matematico, ma come valutazione equitativa in riferimento alla gravità del danno. Inoltre, i danni materiali liquidati ad A.M. sono notevolmente inferiori a quelli indicati, la prolungata custodia dell’autoveicolo è stata determinata da esigenza strettamente cautelative, affinché essa potesse essere messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. La Corte di Appello, in merito alle conclusioni dell’appellante, riferisce che questi non spiegano quali conclusioni trarne, nessuno ha notato che la comparsa conclusionale, pur se regolarmente depositata, come risulta dal fascicolo, è stata sottratta.

Il motivo di ricorso deve ritenersi fondato nella sua parte essenziale.

Questa Corte Suprema, recentemente, ha più volte affermato che anche una casalinga può trovarsi a subire un danno di natura patrimoniale qualora si veda in misura maggiore o minore privata per il futuro della possibilità di svolgere l’attività in questione (appunto quella di casalinga).

Vanno ricordate in particolare le seguenti decisioni:

A) “La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge purtuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica, sicchè va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile autonomamente rispetto al danno biologico) quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa. Il fondamento di tale diritto, specie quando la casalinga sia componente di un nucleo familiare legittimo (ma anche quando lo sia in riferimento ad un nucleo di convivenza comunque stabile) è difatti, pur sempre di natura costituzionale, ma riposa sui principi di cui agli artt. 4 e 37 della Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro, e i diritti della donna lavoratrice), mentre il fondamento della risarcibilità del danno biologico si fonda sul diverso principio della tutela della salute” (Cass. n. 15580 dell’11/12/2000).

B) “La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge, cionondimeno, un’attività suscettibile di valutazione economica, che non si esaurisce nell’espletamento delle sole faccende domestiche, ma si estende al coordinamento, “lato sensu”, della vita familiare, così che costituisce danno patrimoniale (come tale autonomamente risarcibile rispetto al danno biologico) quello che la predetta subisca in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, e che sussiste anche nel caso in cui ella sia solita affidare la parte materiale del proprio lavoro a persone estranee. Consistendo il danno “de quo” nella perdita di una situazione di vantaggio, e non rimanendo escluso neanche dalla mancata sopportazione delle spese sostitutive, legittimo risulta il riferimento, nel relativo procedimento di liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, con gli opportuni adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla casalinga” (Cass. n. 10923 del 06/11/1997).


C) “Il danno patrimoniale come conseguenza della riduzione della capacità lavorativa generica di una persona è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi è la prova che il soggetto leso svolgesse, o fosse presumibilmente in procinto di svolgere un’ attività lavorativa produttiva di reddito, sia pure figurativo (come nel caso della casalinga)”

(Cass. n. 10015 del 15/11/1996).

Di fronte a tale filone interpretativo giurisprudenziale parte della dottrina ha anzitutto rilevato che d esso (ed in particolare dalla sentenza n. 15580/00) sembra emergere la generalizzata risarcibilità di detta asserita componente del danno patrimoniale, mentre, sulla base dell’art. 2043 c.c. ( e dalle altere norme in materia) deve ritenersi che debbono essere risarcite solo le voci di danno effettivamente esistenti e provate.

Parte della dottrina ritiene poi che non si possa parlare di una capacità lavorativa specifica della casalinga piochè l’attitudine al lavoro domestico non si riconnette ad un vero e proprio rapporto di lavoro (retribuito); e poiché inoltre detto lavoro è in ogni caso svolto a titolo gratutito e quindi non può dar luogo ad un guadagno suscettibile di essere perduto oppure diminuito. Da ciò deriverebbe che la ritenuta risrcibilità del danno in questione comporterebbe delle duplicazioni risarcitorie in quanto la perdita della capacità lavorativa generica è già considerata nell’ambito della liquidazione del danno biologico.

Secondo talune tesi infine la perdita o la diminuzione dell’idoneità a svolgere il lavoro casalingo può talora comportare delle ripercussioni di ordine patrimoniale ma solo esclusivamente sotto il profilo del danno emergente, ed unicamente nell’eventualità che si renda necessario il ricorso ad un aiuto esterno. Da ciò deriverebbe la non configurabilità del danno emergente nel caso che il soggetto danneggiato avesse affidato detto lavoro a terze persone già prima del sinistro.

Non sembra che tali critiche riescano ad inficiare la tesi giurisprudenziale sopra esposta (se esattamente interpretata).

Quanto alla necessità che la sussistenza di un danno effettivo debba essere in concreto provata (in conformità con le regole generali sostanziali e processuali in questione; e quindi, tra l’altro, anche con la possibilità del ricorso per presunzioni) basta rilevare che la cosa è certamente indubbia e che non risulta essere stata messa in discussione (neppure dalla pronuncia n. 15580/00, se ben interpretata).

Con riferimento poi al fatto che la casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge purtuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica, basta rilevare che ciò è incontestabile; e la cosa appare in tutta la sua evidenza se si considera che il venir meno della sua opera può (pacificamente) comportare il sorgere di un danno (oltre che morale anche) patrimoniale per i familiari (Cfr., tra le tante, Cass. n. 11453 del 03/11/1995: “Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta, a norma dell’art. 2043 cod.civ., ai congiunti di persona deceduta a causa di altrui fatto illecito, richiede l’accertamento che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro. Pertanto, quello subito dal marito e dal figlio minore per il decesso, a seguito dell’altrui fatto illecito, del congiunto, (rispettivamente moglie e madre), costituisce, anche nel caso in cui quest’ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale, danno patrimoniale risarcibile, concretantesi nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni economicamente valutabili, attinenti alla cura, all’educazione ed alla assistenza, cui il marito ed il figlio avevano ed hanno diritto nei confronti della rispettiva moglie e madre nell’ambito del rapporto familiare”; cfr., inoltre, Cass. n. 8970 del 10/09/1998: “Il danno patrimoniale subito dai familiari di una casalinga deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito, e consistente nella perdita delle prestazioni domestiche erogate dalla propria congiunta, può essere legittimamente liquidato facendo riferimento non al reddito di una collaboratrice domestica, ma al tripli della pensione sociale”.

A questo punto si impongono due precisazioni:

A) La radicale evoluzione dei costumi non consente più di confinare la problematica in questione alla casalinga, essendo ormai ben possibile il sorgere del danno in questione anche con riferimento ad una donna che svolga anche attività di casalinga e con riferimento ad un danneggiato di sesso maschile.

B) Stranamente finora il lavoro domestico è stato considerato prevalentemente con riferimento all’utilità che ne ricavano altri, ed in particolare i familiari del soggetto in questione; e non con l’utilità che ne ricava direttamente quest’ultimo, ma è evidente che se un soggetto abituato a svolgere detto lavoro solo (ovvero anche) in proprio favore (si pensi ad una figura sempre più comune: il cosiddetto “single”; ed in particolare ad un “sigle” che pulisce il proprio appartamento, lava e stira la propria biancheria, cucina i suoi pasti ecc., senza ricorrere a “colf” ristoranti, lavanderie, ovvero a soluzioni più radicali come alberghi, pensioni, ecc.) viene a trovarsi privato in tutto o in parte della propria capacità a provvedere a dette sue necessità insorge un evidente danno emergente (tipicamente patrimoniale) derivante dal fatto che dovrà cominciare a ricorrere (in misura maggiore o minore a seconda dell’invalidità subita) a “colf”, ristoranti, lavanderie, ecc.; quindi, dato che oggi, una percentuale sempre maggiore di persone (anche se con attività lavorativa retribuita) dedica parte delle proprie energie lavorative a faccende domestiche, una sopravvenuta incapacità di attendere alle medesime comporta di regola un danno patrimoniale sotto il profilo del danno emergente.

Non può peraltro escludersi che detta incapacità comporti anche un lucro cessante; basta pensare infatti, ad es., che nell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.) la prestazione lavorativa può (pacificamente) consistere anche in lavori domestici (purchè – secondo una tesi – si riflettano sull’andamento dell’impresa accrescendone la produttività) e che ai sensi del primo comma della norma predetta i diritti (anche di contenuto più tipicamente patrimoniale; e quindi inerenti ad introiti che in caso di cessazione danno luogo ad un tipico caso di lucro cessante) del partecipante all’impresa medesima sono proporzionali alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato ; e quindi sono suscettibili di diminuzione qualora la capacità di lavoro diminuisca (v. in particolare il primo comma dell’art. 230 bis cit.: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione familiare della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato…..”.

Da quanto sopra esposto emerge altresì che l’insorgere di un danno patrimoniale non è in linea generale (salve le eventuali eccezioni) configurabile se il soggetto danneggiato, già prima dell’incidente, non svolgeva lavori domestici (va rilevato che l’espressione “lavori domestici” va intesa in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di “coordinamento, ‘lato sensu’, della vita familiare”, di cui ha parlato la sopra citata Cass. n. 10923 del 06/11/1997) in quanto questi erano integralmente devoluti a, o per altre ragioni; mentre è invece eccezionalmente configurabile nell’ipotesi, indubbiamente infrequente, che la persona danneggiata affermi e pio riesca a dimostrare che all’epoca del sinistro era in procinto di mutare le proprie abitudini (per un cambiamento delle proprie condizioni economiche o per altre ragioni) nel senso che stava per iniziare a provvedere personalmente, in tutto o in parte, a lavori prima demandati a colf.

Emerge inoltre che in linea generale (fatte salve le eccezioni come quella sopra citata di cui all’art. 230 bis cit.) un danno patrimoniale del danneggiato è possibile solo in relazione ai lavori domestici svolti in suo favore; mentre con riferimento ai lavori svolti gratuitamente in favore di altri, gli eventuali soggetti danneggiati possono essere eventualmente solo questi ultimi.

In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di invalidità permanente o temporanea il soggetto che perde in tutto od in parte la propria capacità di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente svolti in proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale provato (danno emergente ed, eventualmente, anche lucro cessante)”.

Nella fattispecie, la Corte di Appello di Roma non ha seguito detto principio di diritto.

Inoltre la motivazione appare insufficiente con riferimento alla possibile attività lavorativa futura di S.P.; tra l’altro, in quanto, dopo aver dato atto della possibilità di ricorso a presunzioni e del fatto che il C.T.U. definisce l’infortunata “…casalinga con attività lavorativa saltuaria e varia…” omette di motivare in modo sufficiente sul punto (specie alla luce del seguente principio di diritto: “In tema di risarcimento del danno alla persona, la riduzione della capacità lavorativa di un soggetto che svolge vari e saltuari lavori con qualificati, o dell’operaio non specializzato, non è assimilabile alla incapacità lavorativa generica, liquidabile solo nell’ambito del danno biologico, ma è pur sempre fonte di danno patrimoniale, da valutarsi considerando quale sia stata in concreto la riduzione della capacità lavorativa specifica del soggetto leso, che può determinarsi tenendo conto della varietà di attività o di lavorazioni che il soggetto può essere chiamato a compiere, in riferimento alla situazione lavorativa specifica, ambientale e personale, del soggetto stesso”; v. Cass. n. 18945 dell’11/12/2003).

Il secondo motivo di ricorso (avente ad oggetto, esplicitamente od implicitamente, tutti i punti di cui sopra) va dunque accolto (nella misura sopra indicata, apparendo invece privo di pregio nel resto).

La ricorrente incidentale Winterthur Assicurazioni S.p.a., con l’unico motivo di “ricorso incidentale condizionato ex. art. 360 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 1916 c.c.” espone le seguenti doglianze. La Winterthur Assicurazioni S.p.a., “…nell’ipotesi di accoglimento del motivo di ricorso principale, incentrato sull’errata valutazione delle prove raccolte in sede processuale in tema di responsabilità per la causazione del sinistro…”, propone ricorso incidentale condizionato, “…invocando la riforma del capo dell’impugnata sentenza relativo all’azione di regresso esercitata dalla società ricorrente nei confronti delle controricorrenti A.T.A.C. e Le assicurazioni di Roma, per il risarcimento del danno corrisposto alla sig.ra S.P. trasportata sull’autovettura delle ricorrenti principali…”.

Dato che il primo motivo del ricorso principale è stato respinto, il ricorso incidentale deve ritenersi assorbito.

In conclusione l’impugnata decisione va cassata in relazione al motivo accolto (il secondo del ricorso principale); e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

A detto Giudice di rinvio va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.


P.Q.M.


La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo motivo del ricorso principale; rigetta il primo mitivo di detto ricorso; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa in relazione l’impugnata sentenza; e rinvia la causa, anche per la decisione sulle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Così deciso a Roma, 3.12.2004

La redazione di megghy.com

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