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Indennità di espropriazione: questione di legittimità costituzionale

Cassazione , sez. I civile, sentenza 19.10.2006 n° 22357

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

ORDINANZA 19 ottobre 2006, n. 22357

(Presidente Criscuolo – Relatore Forte)

Premesso in fatto che

Con citazione del 17 gennaio 1987, M.G. conveniva in giudizio, dinanzi alla Corte d’appello di Roma, il Comune di Ceprano, deducendo che un suo terreno occupato nel 1980 dal convenuto era stato espropriato in favore di questo, con decreto del Presidente della Giunta regionale del Lazio 195/84 per fini di edilizia residenziale pubblica e che la relativa indennità d’espropriazione, determinata dapprima in lire 1.144.000 e poi, -dopo la sentenza della Corte costituzionale 223/83, in lire 44.054.750, era incongrua.

Con sentenza non definitiva del 28 gennaio 1991, la Corte d’appello di Roma ha respinto le eccezioni di difetto di legittimazione attiva e passiva e la domanda di determinazione della indennità di occupazione legittima perché non provata, mentre con pronuncia definitiva del 18 dicembre 2000, la stessa Corte ha determinato l’indennità di espropriazione in lire 116.583.390, in applicazione dell’articolo 5bis, comma il del Dl 333/92, convertito con modificazioni dall’articolo 1 della legge 359/92, rigettando le domande della G. di interessi e rivalutazione perché tardive e mancando su di esse l’accettazione del contraddittorio dall’ente locale convenuto.

Considerato che

Per la cassazione delle due sentenze la G. ha proposto ricorso di quattro motivi, di cui tre relativi alla pronuncia del 2000 e uno a quella del 1991 e il Comune di Ceprano si è difeso con controricorso e ricorso incidentale articolato in tre motivi, notificato alla ricorrente il 21 settembre 2001, avendo poi presentato entrambe le parti più memorie illustrative delle loro impugnazioni.

Con i primi due motivi di ricorso principale la G. censura la sentenza definitiva di cui sopra per violazione dell’articolo 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato dall’Italia con legge 848/55, in relazione all’applicazione dell’articolo 5bis del Dl 333/92, convertito, con modificazioni, dall’articolo 1 della legge 359/92 e al rigetto della domanda di interessi e rivalutazione monetaria dalla sentenza impugnata sulla somma liquidata (articoli 1224 e 1282 c.c.) e all’articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c..

La ricorrente ha chiesto anzitutto la disapplicazione del citato articolo 5bis del Dl 333/92 per contrasto con la norma sovranazionale citata, la quale garantisce il pacifico godimento della proprietà e prevede le condizioni per esserne privati, consistenti in un pubblico rilevante interesse e nella conformità della procedura ablativa alle norme del diritto interno e internazionale, consentendo agli Stati aderenti di regolare con legge l’esercizio della propri età in conformità all’interesse pubblico.

Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, deve esservi piena proporzionalità tra le finalità pubbliche che si vogliono raggiungere e il sacrificio della privazione della proprietà, con la conseguenza che la espropriazione o acquisizione della proprietà per pubblica utilità non è conforme alla indicata norma della Convenzione, quando sia attuata in violazione del principio di legalità e comunque per essa non sia pagata una somma ragionevolmente collegata al valore di mercato del bene ablato. Tale sproporzione risulta chiara nell’articolo 5bis del Dl 333/92, che prevede un criterio di liquidazione dell’indennità per il quale all’espropriato compete circa la metà del valore di mercato delle aree ablate quando non sia applicata l’ulteriore riduzione del 40% per la omessa accettazione dell’indennità offerta.

Ad avviso della ricorrente, poiché l’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea ha fatto propria la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il giudice nazionale non può che disapplicare la norma contrastante con l’indicato articolo i del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa e la cassazione dovrà cassare sul punto la sentenza impugnata e disporre la liquidazione dell’indennità di espropriazione correlata al valore venale o a una somma ragionevolmente proporzionata a tale valore.

La sentenza impugnata ha anche denegato il diritto agli interessi e alla rivalutazione sulla somma liquidata in base ai valori delle aree alla data dell’espropriazione, così violando ancora la Convenzione, come, interpretata dalla Corte di Strasburgo, che ha chiarito che l’espropriato non può essere danneggiato dall’anormale prolungamento della procedura espropriativa e che allo stesso quindi compete ogni reintegrazione anche della svalutazione, soprattutto quando il danneggiato deve agire in giudizio per ottenere il riconoscimento di una giusta indennità, come in concreto accaduto nel caso, nel quale, dopo oltre 17 anni dall’esproprio, la indennità non è stata ancora pagata; alla luce della giurisprudenza sovranazionale deve cambiare lo stesso orientamento interpretativo per il quale l’indennità viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, per cui non compete la rivalutazione. Il terzo motivo del ricorso principale lamenta l’insufficiente motivazione della decisione impugnata in ordine alla determinazione del valore venale delle aree espropriate sulla base delle indicazioni del consulente di parte del Comune apoditticamente ritenute giuste dai giudici; ancora ad insufficienze motivazionali si rifà il quarto motivo del ricorso principale in rapporto alla statuizione della sentenza non definitiva del 1991 che ha respinto erroneamente la domanda della indennità di occupazione provata dalla G..

Il Comune di Ceprano ha impugnato in via incidentale la sentenza definitiva del 2000, per la parte in cui ha ritenuto ammissibile l’opposizione all’indennità di espropriazione, dopo che il rigetto dell’azione di risarcimento dei danni per l’occupazione e acquisizione della medesima area sul presupposto della mancata valida espropriazione di questa, aveva precluso la domanda di determinazione dell’indennità, coprendo il dedotto e il deducibile ed escludendo quindi qualsiasi obbligo del comune convenuto in relazione alla reintegrazione per la perdita della proprietà della G. collegata alla realizzazione di alloggi di’edilizia residenziale pubblica sul terreno dell’attrice.

Il comune controricorrente ritiene anche insufficientemente motivata la disapplicazione dell’articolo 16 del D.Lgs 504/92. e la mancata liquidazione dell’indennità dovuta nel valore dell’area come dichiarato ai fini del pagamento dell’Ici, criterio di liquidazione che, ad avviso della Corte di merito, sarebbe stato inapplicabile per essere l’espropriazione anteriore alla previsione normativa dell’imposta e che comunque l’indennità doveva essere ridotta anche del 40% come previsto dall’articolo 5bis, non avendo la G. accettato quanto a lei congruamente offerto dal Comune.

Con l’ultimo motivo di ricorso incidentale il Comune censura la sentenza impugnata, per non avere disposto la compensazione con le somme da depositare a titolo di indennità con quella di lire 551.000.000 già versate a controparte in esecuzione della sentenza d’appello che aveva accolto l’azione di risarcimento del danno, cassata senza rinvio dalla Cassazione per violazione dell’articolo 389 c.p.c..

Osserva

1.1. Preliminarmente deve ordinarsi la riunione dei due procedimenti iscritti a ruolo a seguito delle distinte impugnazioni, principale e incidentale, contro la stessa sentenza ex articolo 335 c.p.c..

Va anche delibato, sempre in via preliminare, il motivo del ricorso incidentale relativo alla inammissibilità della opposizione all’indennità, per effetto del passaggio in giudicato della sentenza che ha respinto la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla occupazione delle aree che, coprendo dedotto e deducibile, osterebbe al riconoscimento di ogni altro ristoro per la G., anche a titolo di indennità di espropriazione legittima.

La chiara distinzione tra le azioni conseguenti ad una occupazione per pubblica utilità, di opposizione alla stima dell’indennità in caso di procedimento legittimo e di risarcimento del danno per effetto del comportamento illecito, con palese distinzione delle causae peendi delle due diverse domande, che possono anche proporsi in via concorrente o subordinata (sul tema cfr. tra molte, di recente, Cassazione 19644/05 e 18067/04) esclude ictu oculi qualsiasi incidenza del rigetto della domanda di risarcimento in questa sede, cui consegue la certa ammissibilità dell’opposizione all’indennità, che consente di esaminare i motivi del ricorso che investono il merito della decisione impugnata.

2.1. La Corte deve esaminare in primo luogo la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5bis, comma 1, del Dl 333/92 convertito in legge, con modificazioni, dall’articolo 1 della legge 359/92 )d’ora in avanti articolo 5bis), sollevata dalla ricorrente con memoria del 2 dicembre 2004, sia pure subordinatamente al mancato della richiesta, contenuta nel ricorso principale, di disapplicazione diretta, da questa Corte, della contestata norma per il suo contrasto con l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e con l’articolo 1 del Primo Protocollo addizionale a tale convenzione, ratificati entrambi dalla legge 848/55. La questione- risulta già sollevata da questa Corte con ordinanza 12810/06, alla quale il presente provvedimento intende uniformarsi, solo integrandone il contenuto, in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea, come rilevato nella sentenza della Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (da ora CEDU) del 28 luglio 2004, nella causa Scordino c. Italia, alla quale è poi seguita la pronuncia definitiva nella stessa controversia, resa dalla Grande Camera della. stessa Corte su ricorso del Governo Italiano in data 29 marzo 2006, decisioni entrambe pronunciate ai sensi degli articoli 41, 43 e 44 del citato accordo sovranazionale, con condanna dell’Italia al pagamento in favore dei ricorrenti di una somma a titolo di equa riparazione.

Con la pronuncia del 2006, in particolare, la Grande Chambre della CEDU ha affermato (par. 82 - 104) che l’articolo 5bis viola il “sistema” della Convenzione sulla privazione della proprietà individuale per pubblica utilità, come da essa reiteratamente interpretato nella relazione tra i due commi del citato articolo i del primo Protocollo addizionale, in ordine allo scopo di pubblica utilità che consente l’acquisizione della proprietà in danno dei titolari del diritto (comma 1) e al raffronto tra interesse generale e diritto individuale che con detta privazione si realizza (comma 2).

La normativa italiana, nel prevedere un’indennità largamente inferiore rispetto al valore venale del bene espropriato e riducibile a circa un terzo del prezzo di questo in comune commercio, oltre al carico tributario, per ogni espropriazione, senza considerare la causa per la quale avviene il sacrificio individuale, rompe il giusto equilibrio tra interesse generale e diritto di proprietà individuale tutelato dall’articolo 1 del primo Protocollo addizionale citato.

Tale ultima norma impone, nelle espropriazioni per pubblica utilità, un ristoro di regola corrispondente al valore di mercato dei beni ablati, anche se gli Stati convenzionati possono prevedere la corresponsione di un indennizzo inferiore a tale valore in rapporto ad alcuni. scopi di pubblica utilità, che incidono su una pluralità indistinta di cittadini in fattispecie eccezionali, nelle quali si persegue un interesse generale in un contesto di modifiche costituzionali o di sistema o di nazionalizzazioni, oppure di riforme economico sociali o politiche., che giustifichino un ristoro non integrale per il proprietario espropriato (par. 102 103 della sentenza citata Cedu del 2006).

Di conseguenza, la riduzione dell’indennità fino a circa il 30% del valore venale delle aree edificabili, come effetto dei criteri legali di liquidazione della indennità di espropriazione di cui all’articolo 5bis, non consente un serio ristoro dei proprietari espropriati e viola il giusto equilibrio tra sacrificio del privato e interessi generali, per cui la citata norme interna è in contrasto con l’articolo 1 del primo Protocollo addizionale e lo Stato italiano è stato condannato a corrispondere l’equa riparazione per detta violazione della Convenzione.

La Grande Camera richiama, nella sentenza citata del 2006, ai paragrafi 97-99, come fattispecie nelle quali si è consentita una riduzione dell’indénnità o del ristoro per la privazione della proprietà, i casi eccezionali relativi al riscatto di un gran numero di abitazioni da parte degli enfiteuti e superficiali in vaste aree urbane dell’Inghilterra, qualificato come di riforma economico sociale (James e altri Regno Unito 21 febbraio 1996), ovvero quello di modifiche costituzionali (Ex re di Grecia ed altri 28 novembre 2002) oppure le ipotesi di espropriazioni derivate da nazionalizzazioni o cambiamenti radicali di sistemi, come gli espropri avvenuti con la fine dei regimi comunisti o dopo la riunificazione della Germania. Analoga violazione della Convenzione opera l’articolo 5bis (par. 126 132 della sentenza del 2006) con la previsione della applicazione retroattiva di esso (comma 6) alle liquidazioni dell’indennità già in corso in sede amministrativa e persino nel caso di giudizi pendenti, sul 1 accertamento di tali indennità alla data di entrata in vigore della legge, così privando i proprietari dei terreni espropriati di una parte di quanto già loro spettante e da chiedere o chiesto in sede giurisdizionale, corrispondente al valore commerciale delle aree espropriate che, ai,sensi della legge 2359/1865, era da applicare, prima della novella del 1992, alla fattispecie.

Pertanto, nel caso di specie, analogo a quello oggetto della -presente causa, si era avuta un’ingerenza del legislatore nella causa in corso per la determinazione dell’indennità a favore di una delle parti, violandosi i principi “dello stato di diritto e la nozione di giusto processo, di cui all’articolo 6 della Convenzione (par. 126 e 133 della sentenza Scordino del 2006), per non avere lo Stato italiano giustificato la rilevata retroattività, con la particolare specialità della pubblica utilità nell’espropriazione per edilizia residenziale pubblica intervenuta nella fattispecie, non inserita in un contesto di grande rilievo socio-economico o di riforma istituzionale.

Le richiamate sentenze della Cedu rilevano, ad avviso della ricorrente incidentale per l’ordinamento interno sulla disciplina dei criteri legali di liquidazione dell’indennità di espropriazione, anche perché si è esattamente affermato che le norme della Convenzione vanno interpretate dai giudici italiani uniformandosi all’ermeneutica di esse come data dal loro giudice naturale che è appunto la Corte di Strasburgo. (Su, 1340/04, Cassazione 10294/04, 5724/05, 19028/05 e 21391/05 e, nello stesso senso Cedu (27 febbraio 2001, Lucà c. Italia).

2.2. Deve anche delibarsi in questa sede onde rendere ammissibile la questione che si intende proporre, la mancanza di potere di questa Corte e di ogni giudice italiano di disapplicare l’articolo 5bis, anche se nei limiti della retroattività della sua applicazione, come richiesto in ricorso per effetto della riscontrata violazione dalla norma interna della Convenzione, uniformandosi a quanto deciso dalla Cedu in varie sue pronunce.

È in rapporto alla gerarchia delle fonti normative e alla pluralità dei livelli di legalità cui il giudice italiano è soggetto - livelli interni (norme regionali, statali e costituzionali) e sovranazionali o internazionali - e al carattere precettivo delle norme della Convenzione, che si pone il problema del preteso potere di disapplicazione, dai giudici stessi, di norme legislative interne in contrasto con il detto accordo sovranazionale.

La citata ordinanza di questa Corte 12810/06, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell’articolo 5bis della legge 359/92, uniformemente a quella, quasi contestuale, del 20 maggio 2006 n. 11887 che ha rimesso analoga questione al giudice delle leggi, in rapporto al comma 7bis dello stesso articolo e al ridotto risarcimento dei danni da occupazione acquisitiva illecita, hanno entrambe negato che nella fattispecie, in mancanza di’una disciplina specifica e precettiva dei criteri di liquidazione del ristoro dovuto ai soggetti privati dei loro beni per causa di pubblica utilità, possa sussistere un potere del giudice italiano di disapplicare la legge interna.

Tale potere si è giustamente ritenuto non compatibile con il nostro sistema costituzionale e in specie con le norme che regolano 1 abrogazione delle leggi di cui all’articolo 15 delle disposizioni preliminari al c.c. e all’articolo 136 della Costituzione.

Entrambe le citate ordinanze di questa Corte relative all’articolo 5bis correttamente negano che il contrasto dedotto da parte ricorrente di tale norma con quelle sovranazionali, consenta la disapplicazione diretta della disciplina di diritto interna, anche allorché, come nel caso delle sentenze Scordino c. Italia, si è rilevato che lo stesso costituisce violazione del sistema della protezione internazionale del diritto di proprietà come regolata dalla Convenzione.

Del resto la stessa sentenza della Cedu del marzo 2006 rimette allo Stato italiano l’adozione delle misure “legislative, amministrative e finanziarie” (par. 237) necessarie all’adeguamento del sistema alle, norme sovranazionali, così chiarendo che la sua pronuncia non può incidere con effetti abrogativi sulla legislazione interna italiana.

Invero, sul carattere precettivo delle norme contenute dalla Convenzione europea. occorre mantenere distinti i diritti da essa protetti, “riconosciuti” dagli Stati contraenti con l’articolo 1 come “fondamentali” anche nel diritto interno, con effetto immediato conseguente alla legge di ratifica, salvo per quelle posizioni soggettive già garantite in precedenza, dai mezzi e dalle modalità di tutela di tali diritti rimessi ai singoli Stati aderenti e agli ordinamenti interni.

L’articolo 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato convenzionato, in caso di violazione dei diritti tutelati dalla Convenzione, anche se posta in essere da persone che agiscono nell’esercizio di funzioni pubbliche, e così dimostra che i mezzi normativi di tutela dei diritti fondamentali sono rimessi ai singoli Stati, salvo l’intervento sussidiario della Cedu sui ricorsi individuali di cui all’articolo 34 della Convenzione e la condanna degli Stati convenzionati all’equa riparazione di cui all’articolo 41.

Nello stesso senso è l’articolo 46 della Convenzione per il quale le l’alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti” così escludendo ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne delle sentenze della Cedu, alle quali consegue l’obbligo degli Stati di dar loro esecuzione, in Italia recentemente disciplinato con la legge 12/2006, che individua solo nel governo e nel Parlamento gli organi cui trasmettere le sentenze della Corte di Strasburgo, unici legittimati a dare esecuzione alle decisioni sovranazionali.

Appare chiara quindi in base alla stessa Convenzione la esclusione i ogni potere dei giudici italiani di “disapplicare” le norme legislative in contrasto con essa, riservando la Costituzione il potere di far venir meno le norme primarie al solo legislatore nazionale e regionale e alla Corte costituzionale (articoli 70 e ss. , 117 e 136 Costituzione); nel caso inoltre l’esigenza di copertura finanziaria della modifica normativa, comporterebbe una violazione, dagli stessi giudici, dell’articolo 81 della Costituzione.

La previsione poi, nell’articolo. 56 della Convenzione, della possibile applicabilità di essa solo in alcuni dei territori degli Stati aderenti e dell’applicazione delle disposizioni stesse “tenendo conto delle necessità locali” evidenzia che, nel , sistema dell’accordo sovranazionale citato, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell’accordo per tutti gli Stati che vi aderiscono, le modalità di tutela di essi e di applicazione nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna.

La non precettività delle norme che la sentenza della Cedu del 2006 ha ritenuto violate è del resto comprovata dalla stessa molteplicità delle pronunce di questa Corte che hanno in passato unanimemente negato ogni contrasto dell’articolo 5bis, sia con riferimento al risarcimento per illecita occupazione per pubblica utilità che in. rapporto all’opposizione alla stima per l’indennità di espropriazione (tra molte, da Su, 6853/03a Cassazione 13431/06, in ordine all’occupazione acquisitiva illecita, e Cassazione 13667/04 e 7943/03 in rapporto all’opposizione alla stima e alla bipartizione, dell’articolo indicato, delle, aree, tra edificabili e inedificabili).

Per quanto attiene poi alla retroattività della norma e alla sua incidenza sui procedimenti amministrativi in corso e sui processi pendenti, si è affermata la irrilevanza della perdita conseguente alla riduzione del ristoro legalmente regolato per la privazione della proprietà per pubblica utilità conseguente a interventi legislativi, almeno in rapporto al diritto al giusto processo e all’equa’ riparazione da irragionevole durata dei processi di cui alla legge 89/2001 (così, Cassazione 6998/06, 19999/05, 6071/04, 2382/03).

Si è anche esattamente rilevato da questa Corte, nelle ordinanze citate che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, che il richiamo contenuto nell’articolo 6, par. 2, del Trattato di Maastricht al rispetto, da parte della Unione europea, dei “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentale firmata a Roma il 4 novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comune”, non esclude la diversità degli organi,giurisdizionali preposti alla tutela di tali diritti (Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo) da quelli cui è invece demandata la interpretazione delle norme comunitarie, quale è la Corte di giustizia del Lussemburgo, che ha negato una propria competenza in materia di diritti fondamentali (cfr. Corte Giustizia 29 maggio 1997 C. 199-95 - Kremzow).

Le norme della Convenzione non sono quindi assimilabili ai Regolamenti comunitari né, come questi, si applicano immediatamente nell’ordinamento interno (sul problema, Cassazione 10542/02).

La Corte costituzionale, che in passato, prima delle modifiche apportate alla Convenzione con il Protocollo n. il firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994 e ratificato in Italia con legge 296/97, che ha modificato i citati articoli 46 e 56, della Convenzione, sembra avere avuto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilità in Italia delle norme della Convenzione (con le sentenze citate in ricorso e cfr. Corte costituzionale373/92 e 235/93, entrambe sul carattere pubblico delle udienze nel giusto processo), è oggi orientata invece, dopo la novella degli articoli 111 e 117 della Costituzione, a dare rilievo indiretto alle norme convenzionali come fonti di obblighi cui l’Italia è da tali norme costituzionali vincolata (Corte costituzionale 445/02 e ordinanza 139/05), così negando implicitamente ogni abrogazione automatica e disapplicazione delle leggi ordinarie interne in contrasto con quelle della Convenzione europea da patte dei giudici nazionali.

Quanto affermato non esclude che i diritti tutelati con la Convenzione esistano sin dal momento della ratifica di essa - o prima se già garantiti dal diritto interno - con conseguente successione nella loro disponibilità degli eredi degli originari titolari che ne potranno domandare la tutela con ricorso a-i. giudici italiani, una volta intervenuta una norma interna che ne regoli i mezzi di tutela (Su, 28507/05).

La precettività del riconoscimento dei diritti tutelati dall’accordo internazionale, non rileva ai fini dell’abrogazione di norme che in concreto potrebbero essere lesive di dette posizioni soggettive, finché restino generici e non precisati i rimedi dell’ordinamento interno a garanzia di detti diritti fondamentali (Cassazione 254/99).

In conformità a quanto già delibato dalle citate ordinanze di questa Corte, che hanno dubitato della legittimità costituzionale dell’articolo 5bis, può riaffermarsi che il giudice italiano che eventualmente disapplichi tale norma non avrebbe comunque il potere di imporre come giusto indennizzo il valore venale del bene espropriato, ritenuto più volte in sede sovranazionale l’unico di regola applicabile e che invece il giudice delle leggi interno ha affermato essere non conforme alla Costituzione, per la quale un serio ristoro si è sempre ritenuto compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene acquisito per pubblica utilità.

In conclusione, denegato il potere di disapplicazione delle norme in contrastò con la Convenzione da questa Corte, unico-strumento per rilevare il loro contrasto con la Convenzione europea e provocare la loro espunzione dall’ordinamento è quello di investire della questione relativa la Corte costituzionale.

3.1. Nel caso di specie la questione di legittimità costituzionale é certamente rilevante, perché espressamente, nel ricorso principale, si deduce che, nella espropriazione oggetto di causa, l’indennità di espropriazione di un area edificabile è stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all’articolo 5bis, sulla quale parte ricorrente solleva dubbi di legittimità costituzionale “per violazione degli articoli 2, 10,11, 42, 97, 111 e 117 della Costituzione, in relazione all’articolo 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 6 di questa stessa Convenzione” (così la memoria di parte che prospetta la questione).

Si lamenta in sostanza che, anche senza la riduzione del 40% di cui alla citata norma interna, chiesta peraltro dall’espropriante con il ricorso incidentale, al soggetto espropriato non è garantito un serio ristoro per la rottura dell’equilibrio tra diritto individuale di proprietà e interesse generale a base della causa di pubblica utilità nella espropriazione, avvenuta nel caso per scopi di edilizia residenziale pubblica, cioè per la realizzazione di abitazioni che lo stesso proprietario avrebbe potuto eseguire, al di fuori di un contesto di intervento economico-sociale di grande rilievo.

Come emerge anche dalla sentenza della Grande Camera del marzo 2006 (par. 230), l’affermata legittimità costituzionale dei criteri di determinazione della indennità dei suoli edificabili, di cui alle sentenze della Corte costituzionale 283/93 e 442/93, è collegata al suo “carattere dichiaratamente temporaneo, inattesa di un’organica disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità” e si giustifica “per la particolare urgenza e valenza degli scopi che il legislatore intende perseguire” nella particolare congiuntura economica in cui versava il paese (così espressamente la sentenza 383/93, richiamata anche dall’altra pronuncia citata del giudice delle leggi).

Solo la disciplina dell’articolo 5bis, applicabile ratione temporis nel caso per la natura edificabile delle aree ablate non contestata da nessuna delle parti in questo giudizio, assume rilievo per la presente decisione; difetta invece di rilevanza il richiamo della stessa parte ricorrente all’articolo 37 del Dpr 327/01, che ha reso definitivi i criteri di liquidazione della indennità di cui all’articolo 5bis con effetto dall’1 luglio 2003 ed è inapplicabile nella fattispecie, anche se esclude la giustificazione della loro provvisorietà al fini della legittimità costituzionale di essi.

Altrettanto deve dirsi in ordine all’articolo 16 del DLgs 504/92, la cui applicazione è invocata dall’espropriante, con liquidazione della indennità in una somma ancora minore di quella determinata in applicazione del contestato articolo 5bis. Peraltro il rilevato carattere solo tributario e sanzionatorio della norma., che collega all’evasione dell’Ici una riduzione del ristoro dovuto per l’espropriato ( Corte costituzionale 351/00 e Cassazione 25017/05 e 4461/03) esclude ogni rilievo dell’articolo 16 del Dpr 504/92 in questa sede, perché la norma non regola nuovi criteri di liquidazione della indennità di esproprio inferiori al valore venale delle aree espropriate in violazione del giusto ristoro da garantire ai proprietari.

4. Ritenuta rilevante la questione proposta da parte ricorrente, in rapporto al richiamato articolo 5bis, questa Corte deve dichiararne anche la non manifesta infondatezza.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo, a differenza della Cedu, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina del richiamato articolo 5bis, ha negato la illegittimità costituzionale di tale norma, salvo che per la parte in cui essa non ha previsto, in violazione degli articoli 3 e 42 della Costituzione, per i procedimenti espropriativi in corso, cui la norma si applica, una nuova offerta della indennità allo espropriato, la cui accettazione possa escludere la riduzione del 40% del ristoro di cui alla norma, già fortemente riduttivo rispetto al valore di mercato del bene espropriato (Par. 7.3. della sentenza 283/93)

La stessa sentenza del giudice delle leggi, al successivo par. 9, nega la illegittimità, per violazione dell’articolo 3 Costituzione, della retroattività della disciplina dell’articolo 5bis, per non essere l’ultrattività delle leggi (articolo 11 delle Disp. prel.) principio recepito dalla Costituzione, escludendo quindi la fondatezza della questione “nei termini così puntualizzati” (la espressione della sentenza del giudice delle leggi è pure richiamata nel Par. 4.3. della ordinanza citata di questa Corte 12810/06).

Né può ritenersi che la Corte Costituzionale, con le citate pronunce del 1993 relative ai criteri legali di liquidazione-dell’indennità per le aree edificabili, riferendosi all’articolo 3 della Costituzione, abbia avuto riguardo anche ad una ipotizzabile e sottesa violazione dell’articolo 97 della Costituzione e del principio di imparzialità dell’azione amministrativa che la disposizione di legge non sembra assicurare, intervenendo sulle posizioni delle parti dei procedimenti espropriativi già iniziati e riducendo colo per quelli non ancora definiti e in danno dell’espropriato, l’entità della somma che lo stesso poteva percepire all’inizio della procedura per effetto della privazione del suo bene per causa di pubblica utilità.

Appare però chiaro che l’articolo 111 della Costituzione come novellato dalla legge costituzionale 2/1999 ha garantito tra l’altro, con il principio del giusto processo di cui al comma 1 anche quello delle “condizioni di parità” tra le parti.

Occorre quindi accertare se, in rapporto a tale norma, la retroattività di cui al sesto comma dell’articolo 5bis non incida sulla stesso giusto processo destinato a determinare l’indennità, in corso o addirittura. ancora da iniziare, eliminando le condizioni di parità delle parti del processo, con un intervento che ha sfavorito una sola di esse, riducendo fortemente quanto la stessa avrebbe potuto chiedere o aveva in concreto preteso al momento della domanda, non ottenendo poi quanto si sarebbe potuto aspettare di ricevere per la durata del procedimento amministrativo e/o per quella del processo.

La retroattività dei criteri di liquidazione dell’indennità ha inciso sulla indennità nei procedimenti amministrativi in corso, anteriormente alla opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all’espropriante (Corte costituzionale 67/1990) e, per tale profilo, ha determinato comunque una ingerenza del legislatore sul presente processo a sfavore dell’espropriato che, .senza tale norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della data di entrata in vigore dell’articolo 5bis in effetti la Cedu, nella citata sentenza Scordino del 2006, ritiene violato l’articolo 6.della Convenzione, per l’ingerenza del legislatore nei processi in corso a favore di una delle parti, anche in rapporto all’articolo 1 del primo protocollo addizionale alla convenzione, proprio in quanto non risulta giustificata, con una rilevante causa di pubblica utilità, la perdita di una parte dell’indennità retroattivamente stabilita mentre era già iniziato il procedimento espropriativo ed era ancora in corso il processo di liquidazione della indennità stessa (Par. 132).

Per tale profilo non si afferma in sede sopranazionale che la retroattività dell’articolo 5bis comporti violazione del principio di legalità che deve fondare ogni privazione della proprietà ma solo che la ingerenza del potere legislativo sul funzionamento di quello giudiziario, con l’alterazione delle condizioni di parità delle parti, non è nel caso giustificato in rapporto al tipo di pubblica utilità di modesto rilievo che si persegue con la . realizzazione dell’opera per la quale l’esproprio è stato disposto.

Risulta quindi palese che nel caso, sulla presente opposizione alla stima proposta nel 1987 in un procedimento espropriativo iniziato sin dal 1980 e prima dell’entrata in vigore dell’articolo 5bis, il diritto di proprietà della ricorrente principale è stato inciso dall’intervento normativo di cui all’articolo ora richiamato, che ha modificato a favore dell’espropriante i criteri di liquidazione del ristoro dovuto all’espropriato, riducendo di oltre il 50% la somma che. tale parte avrebbe potuto ottenere in caso di tempestiva conclusione della procedura espropriativa e del conseguente processo.

4.1. La stessa Cedu, con diverse sue pronunce ha ormai definitivamente chiarito il contrasto cori l’articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi (cfr. con le pronunce della Cedu sopra citate, le sentenze della stessa Corte 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera c. Italia, 30 ottobre, 2003, Carbonara e Ventura c. Italia, il dicembre 2003, Colacrai c. Italia, 15 luglio 2005, Carletta c. Italia e Donati c. Italia, 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia - caso nel quale si è decisa la ricevibilità con il merito per essere ormai certa la contrarietà della liquidazione della illecita privazione della proprietà in Italia per causa di Pu e 23 febbraio 2006, Immobilare Cerro c. Italia, sintomatico perché è la causa oggetto della citata SS.UU. 6853/03, che aveva ritenuto conforme al diritto sovranazionale la disciplina della liquidazione di cui al comma 7bis dell’articolo 5bis della legge 359/92)

In tale contesto, la questione di illegittimità costituzionale del comma 1 dell’articolo 5bis per contrasto con il primo comma dell’articolo 117 Costituzione, risolta negativamente prima delle modifiche ad esso apportate dall’articolo 3 della legge costituzionale 3/2001, appare oggi anche essa, non manifestamente infondata.

È indubbio che le norme costituzionali novellate, come gli articoli 111 e 117 della Costituzione, pur se hanno effetto con la entrata in vigore delle loro modifiche, incidono con queste non solo sulla normativa futura ma anche su quella previgente da dichiarare illegittima se con esse contrastante (così Core costituzionale 425/04 in rapporto all’articolo 117 Costituzione), anche se il legislatore ha poi provveduto a regolare l’adeguamento dell’ordinamento interno statale e regionale alla stessa con le leggi 131/03 e 11/2005.

Si deve negare quanto affermato da parte della dottrina sia pure minoritaria che lo norme costituzionali novellate in questi ultimi anni possano operare solo sul quelle ordinarie successive per una sorta di ultraattività di esse, senza incidere sulla legittimità di quelle già vigenti, che devono invece essere dichiarate illegittime ed abrogarsi per le parti in cui risultino in contrasto anche sopravvenuto con principi nuovi inseriti dalle novelle della carta costituzionale.

Nella fattispecie, può affermarsi che l’eventuale riscontrata violazione da norme italiane di quelle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo già vigenti alla data di entrata in vigore del nuovo articolo 117 Costituzione, ne comporta la sopravvenuta illegittimità costituzionale che ovviamente, se dichiarata, retroagisce sin dalla data di entrata in vigore dell’articolo 5bis ritenuto in contrasto con la norma modificata della carta fondamentale.

La questione, comunque, non è quella che la parte pure prospetta della conformazione dell’ordinamento interno alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’ articolo 10 della Costituzione (sul tema cfr. Corte costituzionale, 75/1993), ma l’altra della incidenza delle norme convenzionali sovranazionali sulla legislazione statale e regionale in materia di criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione, per i quali lo Stato Italiano deve esercitare il proprio potere legislativo in conformità alla Convenzione, con leggi statali anche quadro per quelle regionali, al fine di conformare le norme interne a quelle convenzionali.

L’avere esercitato il proprio potere normativo in materia espropriativa in contrasto con l’articolo 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione europea, rende non manifestamente infondata la questione del contrasto sopravvenuto dell’articolo 5bis all’articolo 117 della Costituzione .

5. In conclusione, v anno dichiarate rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 5bis del Dl 333/92, convertito in legge 359/92:

a) per contrasto con l’articolo 111, commi 1 e 2 della Costituzione, in relazione all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’articolo 1 del primo Protocollo addizionale ad essa, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità, ai procedimenti espropriativi in corso e ai giudizi pendenti, dei criteri di determinazione dell’indennità in esso contenuti per i suoli edificabili, viola il diritto a un giusto processo per il soggetto espropriato e, in specie, le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, lese palesemente dall’intromissione del legislatore nell’amministrazione della giustizia, con influenza chiara sulla risoluzione di una specifica e determinata categoria di controversie, tese alla determinazione dell’indennità di espropriazione.

b) Per contrasto con l’articolo 117, comma 1 della Costituzione, in rapporto all’articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla richiamata Convenzione, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità dei criteri di determinazione dell’indennità in esso contenuti, attribuisce ai soggetti privati della proprietà per cause di pubblica utilità di non eccezionale rilievo, un ristoro non serio ed eccessivamente riduttivo del valore venale del bene espropriato.

Ai sensi dell’articolo 23 della legge 87/1953, la dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale comporta la sospensione del processo e la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 5bis del Dl 333/92, convertito in legge 359/92, per contrasto con gli articoli 111 e 117 della Costituzione, anche in rapporto all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’articolo 1 del primo protocollo addizionale a tale Convenzione.

Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio.

Ordina che a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso in Roma il 26 settembre 2006.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 ottobre 2006.

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