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Allontanamento dal posto di lavoro senza aver timbrato il cartellino

Cassazione , SS.UU. penali, sentenza 10.05.2006 n° 15983

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALE

SENTENZA 11 aprile-10 maggio 2006, n. 15983

(Presidente Marvulli – Relatore Marzano)

Svolgimento del processo

1. Il 19 ottobre 2004 la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza in data 7 marzo 2002 del Tribunale di Agrigento, con la quale Giuseppa S. e Vincenzo C., riconosciute loro le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, erano stati condannati a pene ritenute di giustizia per imputazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, di cui agli articoli 61, n. 9, 81, cpv., 640, cpv. n. 1, Cp e 61, n. 2, 81, cpv., 479, in relazione all’articolo 476, Cp.

Si contestava a tali imputati, nella loro qualità di pubblici dipendenti della Soprindentenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, di avere falsamente attestato la loro presenza al lavoro nell’ufficio regionale presso il quale prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo, facendo così risultare orari di entrata e di uscita non rispondenti a quelli effettivi.

I giudici del merito ritenevano accertato che, in più occasioni, gli imputati avevano timbrato il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo all’inizio ed alla fine della giornata di lavoro, ma non avevano fatto risultare, mediante analoga marcatura, i propri allontanamenti dal luogo di lavoro, non dovuti a motivi di servizio; e che tanto integrava gli estremi dei contestati reati di truffa aggravata e di falso.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorsi gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

2.1 Giuseppa S. denunzia:

a) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli articoli 640 e 479 Cp. Quanto alla imputazione di truffa, deduce che i giudici dell’appello avevano omesso di considerare le specifiche censure dell’atto di gravame, con le quali s’era rappresentata la insussistenza sia degli artifici e raggiri sia del danno, posto che le sue assenze dal luogo di lavoro erano da riconnettersi alle “modalità di espletamento dell’attività di ufficio”, «il comportamento… , così come sussunto nello schema dell’accusa e quindi della sentenza, era perfettamente noto nell’ambito dell’ufficio…»: in particolare, le sue assenze temporanee dal luogo di lavoro erano da riconnettersi alle sue funzioni di ufficiale rogante di atti pubblici da stipulare presso studi notarli, tanto non avendo consentito «né la realizzazione di un certo ingiusto profitto…, né un danno alla Pa».

Quanto alla imputazione di falso, lamenta che neppure al riguardo i giudici dell’appello avevano considerato le specifiche censure alla sentenza di primo grado, proposte con l’atto di appello. Rileva che in quella sede si era rappresentato che «è carente… sia l’elemento costitutivo del reato rappresentato dalla specifica condotta della immutaio veri, sia la consapevolezza della concreta e sostanziale immutatio veri»; essendosi «ipotizzata la condotta di falso per non aver indicato nel cartellino segna tempo gli allontanamenti intervenuti nel corso della intera giornata lavorativa, facendo apparire come se questa si fosse svolta con la costante presenza in ufficio, dall’indicato orario di entrata a quello segnato come orario di uscita», si era omesso di considerare che «in questo quadro il reato di falso non sussiste, per carenza di una condotta immutatrice dell’effettivo vissuto». «Il reato di falso - soggiunge la ricorrente - sarebbe stato configurabile solo se l’agente avesse segnato, nell’intermedio della giornata la lavorativa, un periodo di allontanamento e di rientro, adducendo insussistenti ragioni di servizio…», circostanza nella specie non sussistente. La sentenza impugnata aveva rappresentato un «quadro assolutamente ed anzi esclusivamente settoriale di valutazione del devolutum», avendo, «in buona sostanza,… limitato il proprio esame al solo aspetto della condotta della ricorrente, in relazione alla sua frequenza di uno studio notarile, esaminata come avulsa dal contesto generale della sua attività di ufficio», così individuando “il substratro del reato di truffa”, ma «non si è posto il problema, ampiamente profilato nei motivi di appello, della insussistenza di una effettiva condotta fattuale di immutatio veri…»;

b) il vizio di violazione di legge, in relazione all’articolo 62, n. 4, Cp. La sentenza impugnata – lamenta la ricorrente –, dopo aver rilevato che «il danno subito dalla Pa…. non può considerarsi rilevante», aveva escluso tale attenuante «avuto riguardo alla moltelpicità delle violazioni poste in essere dall’odierna prevenuta», non presentando, perciò, il danno «quella caratteristica di esiguità, che costituisce elemento della specifica attenuante in esame», laddove, invece, «in tema di reato continuato il danno va valutato in relazione alle singole violazioni di legge».

2.2 Giuseppe C., dal canto suo, denunzia:

a) vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione agli articoli 429, lettera c), 178, 179 Cpp. Deduce che illegittimamente la sentenza impugnata aveva disatteso la eccezione difensiva di nullità del decreto di rinvio a giudizio per genericità dell’addebito, sull’erroneo assunto della sua tardiva proposizione, versandosi, invece, in ipotesi di nullità assoluta e non relativa; ed erroneamente aveva, altresì, ritenuto la infondatezza nel merito della proposta eccezione, «con argomenti che, a nostro avviso, hanno poco di giuridico»;

b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’articolo 640 Cp. «È emerso pacificamente dagli atti processuali – assume il ricorrente – che il comportamento dei dipendenti, cioè quello di allontanarsi dall’ufficio anche senza permesso, era un fatto ben noto al capo dell’ufficio stesso…», che «conosceva il comportamento dei suoi dipendenti, lo autorizzava implicitamente, a fronte di ciò i dipendenti, proprio per questo modo elastico di gestire l’attività lavorativa, producevano molto di più rispetto al momento in cui vigeva l’osservanza rigida dell’orario di lavoro»;

c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’articolo 476 Cp. Rileva che già con i motivi di appello si era dedotto che «nessun foglio di presenza era stato falsificato, né, del pari, era stato falsificato il nastro dell’orologio segnatempo…», sicché, «mancando qualsiasi documento falsificato, ammesso che i predetti atti possano costituire documento, rectius atto pubblico, era necessario individuare con quale mezzo il falso venne realizzato, non potendosi mai configurare un falso per omissione. Al più l’omissione poteva integrare l’artificio, non mai il falso…». Conclude rilevando che «la Corte di legittimità ha più volte affermato che né il foglio di presenza, né il nastro dell’orologio costituiscono atti pubblici…».

3.0 Il ricorso veniva assegnato alla Quinta Sezione penale di questa Sc, la quale, con ordinanza resa all’udienza del 26 gennaio 2006, ne disponeva la rimessione a queste Su. Disattesa una eccezione di precedente giudicato proposta in udienza nell’interesse di Vincenzo C., e ritenuti infondati il primo e secondo motivo di ricorso dello stesso C. ed il primo motivo di ricorso di S. nella parte riguardante il reato di truffa, quanto al terzo motivo di ricorso di C. ed al primo motivo di ricorso di S. relativamente al reato di falso rilevava la sezione remittente che – premesso che i giudici del merito hanno ritenuto che la falsità addebitata agli imputati consistesse in una omissione, cioè nell’allontanarsi dall’ufficio senza marcare in uscita il cartellino marcatempo –, al riguardo si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, alcune sentenze avendo ritenuto che la mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro non costituisce il reato di falso ideologico per omissione, altre avendo concluso in senso opposto; pur mostrando i giudici remittenti di aderire al primo di tali indicati orientamenti giurisprudenziali, sull’assunto che «deve ritenersi… che la mancata attestazione dell’allontanamento, dopo aver timbrato in ingresso il cartellino segnatempo, non equivalga all’attestazione di ininterrotta presenza in ufficio..» - sicché «la mancata timbratura del cartellino in occasione di un temporaneo allontanamento del funzionario non dà luogo alla reticente formulazione di un atto pubblico unitario, tale da tradursi in una falsa rappresentazione della realtà; ma è semplicemente l’omissione del compimento dell’atto, l’omissione di una delle molteplici autonome attestazioni che debbono essere documentate nel cartellino segnatempo» - rilevavano come “sia opportuno un intervento risolutore delle Su”.

3.1 Il Primo Presidente ha fissato l’odierna udienza per la trattazione dei ricorsi.

Motivi della decisione

4. L’ordinanza di rimessione ha già reso statuizioni delibative in ordine ad una eccezione di bis in idem formulata in udienza dal difensore di Vincenzo C., ed in ordine al primo e secondo motivo di doglianza dello stesso ricorrente ed al primo profilo di censura proposto da Giuseppa S. nella parte relativa al reato di truffa.

E però, hanno già avuto modo queste Su (sentenza 41476/05, ric. Pg ed altro in proc. Misiano, che ha richiamato la sua precedente sentenza 17/2000, ric. Primavera) di rilevare che nell’attuale sistema processuale non è dato che il ricorso possa essere definito in parte dalla sezione semplice della Sc ed in parte dalle Su, la remissione (atto amministrativo e non giurisdizionale) del procedimento a queste ultime comportando che siano solo queste, appunto, a dovere delibare il proposto gravame, nella loro intierezza e completezza.

5.0 Ciò posto, il primo motivo di ricorso di C., che involge una questione di rito dalla quale si fa pregiudizialmente discendere la nullità del decreto di rinvio a giudizio e, quindi, della sentenza impugnata, è destituito di fondamento.

Contrariamente, difatti, a quanto opina il ricorrente, è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che la indeterminatezza dell’accusa, ove sussistente, non dà luogo ad una nullità generale ai sensi dell’articolo 178 Cpp, ma - come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata e da quella integrativa di prime cure - ad una nullità solo relativa, ai sensi dell’articolo 181 Cpp, che deve essere eccepita entro il termine di cui all’articolo 491 dello stesso codice di rito (cfr. Cassazione, Sezione quarta, 39617/02, ric. Ferraro ed altri; id., Sezione prima, 2367/00, ric. Pg in proc. Mamidovic; id., Sezione- sesta, 1175/00, ric. Tancredi ed altro; id., Sezione seconda, 3757/96, ric. Pellegrino; id., Sezione prima, 3801/94, ric. Sgamba; id., Sezione terza, 1222/94, ric. Rindi). E nella specie - come danno atto i giudici del merito ed implicitamente riconosce lo stesso ricorrente - la relativa eccezione venne formulata solo in sede dibattimentale di primo grado.

Tanto rende del tutto ultronea anche la considerazione che i giudici dell’appello hanno, “comunque” ed “a prescindere dalla ammissibilità della stessa” tardivamente prospettata questione, dato persuasiva contezza della infondatezza nel merito di quest’ultima, ed a fronte di quell’apparato argomentativo il ricorrente si limita ad affermazioni assiomatiche e meramente assertorie, rilevando genericamente che «non si è trattato di un unico periodo, ma di singoli episodi limitati nel tempo» e che «aveva il diritto di conoscere singolarmente gli episodi dai quali difendersi, di conoscere il danno arrecato nella singola ipotesi di truffa…».

5.1 Infondata è anche l’eccezione di bis in idem formulata in udienza del difensore di C., che ha prodotto a sostegno di tale deduzione la sentenza in data 9 febbraio 2005 del Tribunale di Agrigento (con annotazione del suo passaggio in giudicato nel maggio successivo).

Deve al riguardo rilevarsi che ha più volte ritenuto questa Sc che il divieto del bis in idem di cui all’articolo 649 Cpp - che postula una preclusione derivante dal giudicato formatosi per lo stesso fatto e per la stessa persona - involge una questione di fatto riservata alla valutazione del giudice del merito, alla cui delibazione è demandato l’accertamento della identità del fatto e del passaggio in giudicato della precedente decisione, sicché essa, di norma, non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità, ove è precluso l’accertamento del fatto. E si è rilevato che la parte, nondimeno, non rimane priva di tutela, potendo eventualmente far valere la preclusione davanti al giudice della esecuzione (cfr. Cassazione, Sezione seconda, 41069/04, ric. Chiaberti; id., Sezione sesta, 34955/03, ric. Rebeschi; id., Sezione quinta, 10076/99, ric. Burgio ed altri; id., 7953/98, ric. Sparacino; id., Sezione sesta, 9301/95, ric. Pg. in proc. Scarpa; id., Sezione prima, 4102/91, ric. Caso). Si è, tuttavia, altra volta ritenuto che la relativa questione sia proponibile per la prima volta in cassazione solo se la stessa, ratione temporis, non sia stato possibile dedurre in grado di appello, per essere la sentenza precludente passata in giudicato dopo quel giudizio (Cassazione, Sezione prima, 31123/04, ric. Cascella).

Appare opportuno al riguardo chiarire che, in effetti, in tale ultima ipotesi la questione è senz’altro proponibile per la prima volta in Cassazione, al giudice di legittimità essendo attribuita anche la cognizione delle questioni «che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello» (articolo 609.2 Cpp). In siffatta evenienza, ove l’accertamento della identità o meno del fatto e del suo autore postuli comunque attività di merito, di indagine e prova, e conseguentemente valutativa in fatto dei relativi accertamenti, a tanto non può, evidentemente, attendere la Corte di cassazione, che è giudice di legittimità e non di merito. Ove, invece, la fattispecie non proponga alcun (ulteriore) accertamento di merito e sia, invece, definitivamente definibile alla stregua della sola documentazione prodotta ed acquisita agli atti, non v’è ragione alcuna perché il giudice di legittimità non sia investito, con poteri definitori, di una questione - sostanzialmente rinviandola al giudice della esecuzione - che ha, invece, il dovere di proporsi e rilevare, ponendosi la preclusione di cui all’articolo 649 Cpp come impeditiva della possibilità di (ulteriormente) rendere statuizioni decisorie.

Nella specie, a sostegno della propria eccezione la parte ha prodotto - come s’è detto - la sentenza del Tribunale di Agrigento del 9 febbraio 2005, divenuta irrevocabile nel maggio successivo, epoche, queste, posteriori a quella in cui venne resa la sentenza impugnata, il 19 ottobre 2004.

Ma proprio alla stregua di tale prodotto documento (e senza necessità, quindi, di alcun diverso accertamento di merito) è dato cogliere la infondatezza della proposta eccezione, dovendosi escludere la medesimezza del fatto, ai sensi dell’articolo 649 Cpp. La prodotta sentenza, difatti, afferisce a contestate ipotesi di falso materiale per contraffazione di firme, addebitandosi ad alcuni dipendenti di aver apposto, sul nastro dell’orologio marcatempo e sui fogli di presenza, le apocrife firme di altri colleghi per attestarne falsamente l’ingresso in ufficio; la sentenza ora impugnata, invece, afferisce solo ad ipotesi di attestazioni realmente riferibili all’imputato, che poi si allontanava dall’ufficio non facendo risultare tale circostanza.

6. Per quanto concerne le imputazioni di truffa contestate ai ricorrenti (per le quali sono state riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate), deve rilevarsi che si sono allo stato perenti i termini prescrizionali massimi di legge.

Tenuto conto, invero, del disposto degli articoli 157.1, n. 4, e 160.3 Cp, tale reato è contestato a C. come commesso sino alla “fine di giugno 1997”; dalla analitica esposizione dei vari episodi contenuta nella integrativa sentenza di primo grado gli ultimi sono collocati al 29 maggio ed al 5 giugno 1997 (data, quest’ultima, nella quale si colloca, in imputazione, l’ultimo episodio di falso). Pur tenuto conto delle sospensioni del termine stesso verificatesi nel corso del giudizio di appello per rinvii, dovuti ad impedimenti e richieste delle parti private, dall’udienza del 29 maggio 2003 a quella del 25 novembre 2003 (per il periodo di mesi cinque e giorni ventisette), dall’udienza del 25 novembre 2003 a quella del 2 marzo 2004 (per il periodo di mesi due e giorni sei), dall’udienza del 30 marzo 2004 a quella del 18 maggio 2004 (per il periodo di mesi uno e giorni 18), dall’udienza del 18 maggio 2004 a quella del 12 ottobre 2004 (per il periodo di mesi quattro e giorni ventiquattro), per complessivi, quindi, anni uno, mesi tre e giorni quindici, il relativo termine prescrizionale di sette anni e mezzo per tale reato è venuto a scadenza il 20 marzo 2006.

Analogamente è da dire per S., per la quale il reato in questione pure viene indicato in imputazione come commesso sino “alla fine di giugno 1997”, e nella integrativa sentenza di primo grado l’ultimo episodio è collocato al 28 maggio, epoca in cui è determinata, in imputazione, anche la data dell’ultimo episodio di falso: il relativo termine prescrizionale per tale imputata si è, quindi, perento il 15 marzo 2006.

Non ravvisandosi ipotesi sussumibili nella previsione di cui all’articolo 129.2. Cpp, alla stregua di quanto rappresentato dalle sentenze di merito (ed i motivi di gravame si limitano solo a censurare le argomentazioni logiche che dalle indicate emergenze processuali hanno desunto i giudici del merito e le conseguenti valutazioni fattene), la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, in riferimento a tali reati, perché estinti gli stessi per prescrizione.

7.0 Per quanto riguarda le imputazioni di falso contestate ad entrambi i ricorrenti, la questione sottoposta all’esame di queste Su (se, cioè, integri il reato di falso ideologico in atto pubblico la mancata timbratura, da parte del dipendente pubblico, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro), comporta l’esame e la soluzione di altra, preliminare questione, pure espressamente prospettata nel terzo motivo di ricorso di C. e, cioè, se il cartellino marcatempo (che meccanicamente annota gli orari di ingresso e di uscita dal luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che assolvono ad analoga funzione) dei pubblici dipendenti abbiano o meno natura di atto pubblico.

La prevalente giurisprudenza di questa Sc si è al riguardo positivamente orientata, sulla considerazione che tali atti svolgerebbero la loro funzione non solo in riferimento al rapporto di lavoro tra impiegati pubblici e Pa, ma anche in relazione alla organizzazione stessa di quest’ultima, con riflessi sulla sua funzionalità, essendo, perciò, essi “destinati a produrre effetti per la stessa Pa”, anche in ordine al “controllo dell’attività e regolarità dell’ufficio”; tali attestazioni, quindi, sarebbero «preordinat(e) ad attestare la certezza dello svolgimento della pubblica funzione da parte di coloro che ne sono preposti», non rilevando al riguardo la natura privatistica del rapporto di lavoro tra pubblico dipendente e Pa (da ultimo Sezione quinta, 5676/05, Pg in proc. Santamaria ed altro; 16503/04, Matarelli; 43844/2004, Pg in proc. Amendola; 42245/04, Orlando; 40848/04, Pm in proc. Passerella, 27509/04, Cei; 21193/2003/2003, Pm in proc. Giambò; ecc.).

L’opposto minoritario indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla considerazione che siffatte attestazioni rilevano «in via diretta ed immediata unicamente ai fini della retribuzione e comunque del regolare svolgimento della prestazione di lavoro e solo indirettamente, e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento del servizio» (Sezione quinta, 44689/05, Flavio ed altro; 38770/02, Marchese ed altri; 12789/03, Bua ed altro; 2303/88, Sariconi).

7.1 Queste Su ritengono di far proprio tale secondo orientamento giurisprudenziale.

Posto, difatti, che la condotta di falsificazione ideologica del pubblico ufficiale ipotizzata dall’articolo 479 Cp (come quella materiale di cui all’articolo 476) deve sostanziarsi in una attività svolta “nell’esercizio delle sue funzioni” pubblicistiche, appare ineludibile distinguere, nell’attività del pubblico impiegato - ed in un contesto in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto connotazioni privatistiche (a seguito della disciplina introdotta con il D.Lgs 29/1993, modificata dal D.Lgs 80/1998, ora trasfusa nel D.Lgs 165/01) - «gli atti che sono espressione della pubblica funzione e/o del pubblico servizio e che tendono a conseguire gli obiettivi dell’ente pubblico» da quelli “strettamente attinenti alla prestazione” di lavoro, «ed aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano contrattuale e non anche su quello funzionale» (Cassazione, Sezione quinta, 12789/03, cit.).

Premesso, invero, che secondo la costante giurisprudenza di questa Sc e la prevalente dottrina, «agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell’articolo 2699 Cc, in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica» (così, fra altre, Cassazione, Sezione quinta 8151/76, Di Falco), rimane che - come si esprime autorevole dottrina - «la falsa rappresentazione della realtà che viene documentata deve essere rilevante in relazione alla specifica attività del pubblico ufficiale… e ciò significa che la falsità deve investire un fatto che, in relazione al concreto esercizio della funzione o attribuzione pubblica, abbia la potenzialità di produrre effetti giuridici». Quanto dire che - secondo altre voci della dottrina - la nozione di atto pubblico «si fonda sulla qualità del soggetto (pubblico ufficiale o impiegato dello Stato o di altro ente pubblico incaricato di un pubblico servizio articolo 493) e sul piano del documento che si redige per una ragione inerente all’esercizio delle pubbliche funzioni o del pubblico servizio, o per uno scopo cui l’atto è destinato»; e nei reati di falso, in generale, «funzionali (o propri), data la posizione giuridica dell’agente (che è un pubblico ufficiale), si delinea uno stretto collegamento tra il soggetto ed il bene, in virtù del quale la cura del bene medesimo… è “affidata” al soggetto per essere quest’ultimo titolare di un potere pubblicistico ben individuato (il potere certificativo”), attributivo di “certezza pubblica». E la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha, da tempo, puntualizzato che atto pubblico è «ogni scritto redatto da un pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni» (Cassazione, Sezione quinta, 1576/75, Pansa).

Tale ineludibile collegamento tra esercizio di funzioni pubbliche ed attività falsificatoria dei pubblici ufficiali (che «non consente di ritenere automaticamente che tutti gli atti dagli stessi compiuti siano atti pubblici»: Cassazione 12789/03, cit.), non può, quindi, condurre ad annoverare nella nozione di atto pubblico, rilevante ai fini penali, attività attestative che, invece, appaiono collegate direttamente ed immediatamente ad «istituti sicuramente riconducibili alla disciplina privatistica» (per mutuare altra espressione dottrinaria) e che, soprattutto, in tale ambito esauriscono la loro funzione di rilevanza attestativa.

Deve, allora, convenirsi che, in effetti, il cartellino marcatempo ed i fogli di presenza sono destinati ad attestare solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra il pubblico dipendente e la Pa, ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla Pa. Il pubblico dipendente, in sostanza «non agisce neppure indirettamente per conto della Pa, ma opera come mero soggetto privato, senza attestare alcunché in ordine all’attività della Pa» (come rileva Cassazione, Sezione quinta, 15271/05, Piano Del Balzo ed altro, ancorché in fattispecie concernente attestazioni relative a “missioni” fuori sede del pubblico funzionario, ma con principio valido anche nella fattispecie qui in esame).

Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto: i cartellini marcatempo ed i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la Pa (oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla Pa.

Tanto ritenuto, pure torna opportuno, da ultimo, rilevare che, ove, poi, tali attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite, in atti della Pa a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per induzione, ai sensi dell’articolo 48 Cp.

8. Alla stregua di tale principio, la sentenza impugnata va annullata, quanto alle imputazioni di falso contestate, perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

 

La Corte annulla senza rinvio l’impugnata sentenza perché estinti per prescrizione i reati di truffa e perché il fatto non sussiste quanto al reato di falso.

Così deciso in Roma l'11 aprile 2006.

Depositata in cancelleria il 10 maggio 2006.

 

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