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I rapporti tra truffa aggravata ed indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato

Cassazione , sez. II penale, sentenza 10.02.2006 n° 10231

Il testo della sentenza:

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA (ud. 10-02-2006) 23-03-2006, n. 10231

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 28 settembre 2004, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di F.C. in ordine al reato di truffa aggravata ( art. 640 c.p., comma 2) in danno dell'Azienda Ospedaliera di Patti dalla quale aveva ottenuto prestazioni sanitarie in regime di esenzione contributiva mediante falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito proprie e della sua famiglia, in Patti il 24 marzo 2002.

Il Giudice dell'udienza preliminare, escluso che la fattispecie contestata potesse essere ricondotta alla meno grave ipotesi di reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. sul rilievo che l'indebito conseguimento di prestazioni di carattere previdenziale ed assistenziale in regime di esenzione non rientrava nel novero delle sovvenzioni (contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo) oggetto di tutela, escludeva altresì - all'esito di un' accurata disamina dei principi interpretativi formulati dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale in ordine al rapporto di sussidiarietà (non di specialità) tra l'art. 316 ter e 640 bis cod. pen. - che la condotta contestata (falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito familiare), in quanto non indirizzata al conseguimento indebito di una sovvenzione pubblica (nel significato enucleato) e non integrata da ulteriori profili idonei a configurare la sussistenza di artifizi o raggiri e l'induzione in errore del soggetto passivo, consentisse di ritenere realizzato il delitto di truffa, oggetto di contestazione. Riteneva infine non accoglibile la tesi della pubblica accusa in ordine all'applicabilità dell'ipotesi delittuosa di cui al D.L. n. 382 del 1989, art. 3, comma 4, perchè abrogato dal D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8.

Contro tale decisione ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Patti, che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata per i seguenti motivi:

1) per erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8, sul rilievo che nell'abrogazione ivi enunciata, con riferimento a tutte le precedenti norme in materia di partecipazione alla spesa sanitaria, non si fa menzione del D.L. n. 382 del 1989, art. 3, il quale stabilisce specificamente la riconducibilità al paradigma della truffa, nell'ipotesi aggravata di cui al capoverso dell'art. 640 cod. pen., di ogni condotta di indebito conseguimento dei prestazioni assistenziali sanitarie;

2) per erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 316 ter, 640 e 640 bis cod. pen., sul rilievo che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che anche la condotta di mero mendacio, non accompagnata da ulteriori comportamenti ingannevoli e consistente anche nel semplice mantenimento del silenzio su circostanze rilevanti, se attivamente orientata a trarre in inganno il soggetto passivo, integra V artificio della truffa ove tale effetto abbia prodotto. Nel caso di specie, la sottoscrizione di una dichiarazione ideologicamente falsa sulle proprie condizioni di reddito, oltre ad integrare il reato previsto dall'art. 483 cod. pen. (per il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto il rinvio a giudizio), aveva indotto l'ente a riconoscere l'esenzione contributiva. La ritenuta irrilevanza penale della condotta asseritamente esauritasi nella falsa dichiarazione, non può dunque essere condivisa, perchè, quando la condotta medesima è caratterizzata da modalità ingannevoli diverse ed ulteriori rispetto alla mera falsa dichiarazione, è configurabile la fattispecie della truffa aggravata.

Le conclusioni scritte del Procuratore generale presso questa Corte, con le quali si chiede di annullare la sentenza impugnata, si articolano nella disamina attenta della sentenza impugnata, della quale si condivide il complessivo impianto motivazionale; constata, tuttavia, la differente rilevanza che agli effetti della odierna determinazione deve essere assegnato ad una condotta realizzatasi attraverso la produzione di una falsa autocertificazione, non potendosi sottovalutare, ad avviso del requirente, l'affidamento ex lege sulla relativa veridicità, atteso che il legislatore attribuisce a tale genere di dichiarazioni valore certificativo. Tale aspetto, soggiunge il requirente, non è stato mai oggetto di approfondita attenzione. Se il soggetto ricevente, deve, per legge, affidarsi a tale dichiarazione, ad una siffatta autocertificazione non può non annettersi un valore ulteriore rispetto al semplice mendacio; e, quindi, il significato di artificio per la intrinseca capacità ingannatoria.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso del Procuratore della Repubblica, che denuncia violazione di legge in relazione alla ritenuta vigenza del D.L. 25 novembre 1989, n. 382, art. 3, convertito in L. 25 gennaio 1990, n. 8, è infondato, in quanto l'abrogazione operata dal D.Lgs. 29 aprile 1998, n. 124, art. 8 (in conformità, anche, alle argomentazioni svolte sul punto dal Procuratore generale nella requisitoria scritta), si estende a tutta la precedente disciplina in materia di partecipazione alla spesa sanitaria e di esenzione della stessa; sicchè non è consentito ritenere la sopravvivenza di una singola norma. La formula usata dal legislatore, non consente, invero, margini di incertezza. Infatti, il richiamo, con portata caducatoria, di "tutte" le precedenti norme (che già di per sè non lascia spazi di esclusione), è confermato dal successivo inciso ("non esplicitamente confermate dal presente decreto"), il quale ultimo, a ben guardare, rafforza il convincimento che il legislatore ha inteso con la nuova normativa disciplinare ex novo l'intera materia, attraverso una regolamentazione dettagliata (che per il suo tecnicismo ha fatto ritenere preferibile il sistema della delega al governo) e completa. Essendo stati ridefiniti i criteri, sia di partecipazione alla spesa sanitaria, sia di esenzione, sia di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate nei confronti di amministrazioni pubbliche, sia di modalità per l'acquisizione delle informazioni e l'effettuazione dei controlli, anche le previsioni sanzionatorie della precedente disciplina restano travolte dal novum. Ed invero il D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 4, comma 7 prevede in qual modo il diritto all'esenzione debba essere riconosciuto dalle AUSL, nonchè il contenuto e la funzione della dichiarazione sostitutiva a norma dell'allora vigente L. n. 15 del 1968 (abrogata e sostituita dal D.P.R. 445 del 2000, che, però, all'art. 78, ha espressamente stabilito che restano in vigore le disposizioni di cui al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 109, concernenti la dichiarazione sostitutiva unica per la determinazione dell'indicatore della situazione economica equivalente dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate). Mentre il successivo art. 6, regola le procedure e i tempi, in particolare le competenze regionali (comma 2), per il riconoscimento del diritto all'esenzione (lett. a); per il rilascio da parte delle AUSL del documento attestante il diritto all'esenzione (lett. b); per le modalità con le quali effettuare i controlli sulle esenzioni riconosciute (lett. c). La particolarità di tale procedura - la cui attivazione è individuata nella dichiarazione sostitutiva del richiedente (D.Lgs. n. 109 del 1998, art. 4, tuttora in vigore, perchè, si ribadisce, fatto salvo espressamente dal D.P.R. 445 del 2000, sopra citato, art. 78), la quale prevede l'espressa dichiarazione di consapevolezza della possibilità (nel caso di corresponsione della prestazione) di controlli diretti ad accertare la veridicità delle informazioni fornite - da ulteriormente conto della intenzione del legislatore di dettare una disciplina integralmente nuova.

Del resto, la disposizione di cui al citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3, nel suo dato testuale ("chiunque, con qualsiasi mezzo, ottiene indebitamente l'esenzione dal pagamento delle quote di partecipazione alla spesa sanitaria"), era stato correttamente interpretata (cfr. Cass., Sez. 2^, 6 marzo 1996, P.M. in proc. Angeloni, n. 3778/96, C.E.D, Cass., n. 204752) come fattispecie da leggere in maniera non isolata ed indipendente, (in quanto non retta da principi giuridici propri), ma alla stregua dei principi generali ai quali si ispira anche l'art. 640 cod. pen. (cui la disposizione predetta espressamente rinvia quoad poenam), e che informano un più ampio sistema di norme volte ad impedire le frodi compiute mediante lo svolgimento di attività illecite. In conseguenza, anche nel caso in cui si dovesse pervenire al diverso approdo della sua vigenza, il risultato non muterebbe, dovendosi comunque tener conto del novum che è conseguito all'entrata in vigore dell'art. 316 ter cod. pen..

2. Più complessa è la questione che propone il secondo motivo di ricorso. La sentenza impugnata, partendo dalla premessa che l'abrogazione del sopra citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3 aveva comportato la necessità di ricondurre il profitto conseguente all'indebita esenzione dal pagamento delle quote di partecipazione sanitaria all'ipotesi delittuosa di cui all'art. 640 cod. pen. (come del resto contestato all'imputato) solo nel caso in cui la condotta di induzione in errore fosse conseguenza di artifici e raggiri, li ha ritenuti non sussistenti perchè la condotta si era risolta nella semplice falsa dichiarazione di persona non abbiente. A giustificazione di tale assunto, in sentenza si è richiamato quanto stabilito nell'ordinanza n. 95 del 2004 pronunciata dalla Corte costituzione l'8-12 marzo 2004 sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 316 ter cod. pen. (richiamo sicuramente opportuno perchè la definizione della condotta delineata dal delitto di truffa è unitaria sia che essa si esplichi a danno del privato, sia che si esplichi ai danni dello Stato o di altro ente pubblico).

La Corte costituzionale, rammentata la coincidenza della questione con quella in passato sollevata per la previsione punitiva di cui alla L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2, ha rilevato che "il carattere sussidiario e "residuale" dell'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen. - a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda - costituisce dato normativo assolutamente inequivoco". Ha in tal modo escluso l'automatica sovrapponibilità delle condotte individuate nell'art. 316 ter cod. pen. (dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere) con quelle di cui all'art. 640 cod. pen., cioè con gli artifizi e i raggiri. Ha tuttavia espressamente riservato all'"ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter cod. pen. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis cod. pen., facendo applicazione in tal caso solo di quest'ultima previsione punitiva", perchè ha ritenuto evidente, anche in ragione delle preoccupazioni espresse dal legislatore nel corso dei lavori parlamentari, che "l'art. 316 ter cod. pen. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall'art. 640 bis cod. pen., "coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento - per difetto - del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese", quale delineata dall'art. 1 della Convenzione (PIF): margini la cui concreta entità - correlata alle più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscono al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli "artifici o raggiri", in qualunque forma realizzati, sia all'induzione in errore - spetta all'interprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio".

Vale a dire: nella valutazione della fattispecie concreta è rimesso al giudice stabilire se la condotta che si è risolta in una falsa dichiarazione, per il contesto in cui è stata formulata, integri l'artificio di cui all'art. 640 cod. pen..

La soluzione adottata in via interpretativa dal Giudice delle leggi è condivisibile, e d' altra parte coincide con i principi già affermati da questa Corte, anche a sezioni unite (Cass., Sez. un., 24 gennaio 1996, Panigoni ed altri, in tema di rapporto fra la L. n. 898 del 1986, art. 2, ed il reato di truffa; Cass., Sez. 6^, 24 settembre 2001, P.M. in proc. Tammerle, n. 41928/01, C.E.D. Cass., n. 220200) Dalla più volte richiamata ordinanza n. 95 del 2004 della Corte costituzionale emergono, dunque, due profili che paiono essereoltremodo qualificanti ai fini dell'odierno scrutinio. Da un lato, infatti, traspare in termini "costituzionalmente conformati" il dato incontrovertibile - alla stregua, anche, degli analoghi approdi, cui la Corte stessa era pervenuta in riferimento ai precedenti normativi in tema di frodi FEOGA, non a caso altrettanto "travagliati" quanto a ricostruzione ermeneutica - rappresentato dalla circostanza che, atteso il più che dichiarato carattere residuale e sussidiario che contraddistingue il reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. rispetto alla ipotesi di truffa, la descrizione della relativa fattispecie individua una condotta necessariamente "diversa" da quella che invece caratterizza la figura, per così dire, "maggiore": giacchè, ove così non fosse, tra le due norme poste a raffronto, la relatio correttamente evocabile non sarebbe quella di sussidiarietà (rapporto, questo, che riflette un paradigma di alternatività strutturale tra le fattispecie, nel senso che le aree applicative delle due figure restano fra loro nettamente distinte, ancorchè raccordate da un fenomeno di progressività lesiva), ma quella della specialità, per la quale una figura assumerebbe connotazioni di parziale o totale "assorbimento" degli elementi descrittivi della seconda, o dando vita ad un fenomeno di "assorbimento" reciproco, per "cerchi concentrici".

Al riguardo, non possono, quindi, non essere condivise le obiezioni di equivocità espresse dai commentatori e fatte proprie dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, alla sentenza, di questa stessa Sezione, del 22 marzo 2002, Morandell, essendosi in essa affermato - non senza un formale ossequio ai dieta delle Sezioni unite, pronunciatesi sul finitimo tema delle frodi FEOGA (Sez. un., 15 marzo 1996, Panigoni) - che, avuto anche riguardo alla scarsa chiarezza dell'innesto normativo rappresentato dall'art 316 ter cod. pen. e dei suoi problematici rapporti con il delitto di truffa, non potesse "essere di risolutivo aiuto l'attardarsi ad approfondire i concetti di sussidiarietà o specialità delle norme, perchè, nel caso in esame sembrerebbe trattarsi quasi di un criterio di sussidiarietà espresso ("salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis) il quale, in realtà, disegna e ritaglia una fattispecie normativa specifica nell'ambito della più generale previsione della truffa comunitaria". Tale assunto, infatti, negato a chiare lettere dal Giudice delle leggi, non può trovare accoglimento, proprio per la inconciliabilità logica delle due prospettive di fondo sulla cui "confondibilità" quell'assunto stesso poggiava; giacchè, una volta ricondotto il rapporto tra le due fattispecie nello schema della "specificità" dell'una rispetto all'altra, doveva derivarne la ontologica esclusione di qualsiasi rapporto di sussidiarietà. Mentre, infatti, dalla mancanza della norma sussidiaria non deriva la applicabilità della norma, per così dire, "sussidiata" (la prima, anzi, è per sua stessa natura destinata a colmare lacune precettive e sanzionatorie che residuano dalla seconda), ove difetti, invece, la norma speciale, si "riespande" l'area applicativa della norma generale: i due fenomeni, in sostanza - quello di sussidiarietà, da un lato, e quello di specialità, dall'altro - non soltanto si presentano fra loro come realtà normative nettamente distinguibili, ma si collocano, addirittura, su piani alternativi.

Sotto altro profilo, dalla citata sentenza della Corte costituzionale, deriva anche che, qualsiasi diversa interpretazione o applicazione dell'art. 316 ter cod. pen., - come traspare dalla stessa "questione" sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi e che emerge dalla parte narrativa dell'ordinanza - ineluttabilmente condurrebbe a conseguenze del tutto irragionevoli, giacchè, a configurare il richiamato art. 316 ter cod. pen. come una sorta di figura attenuata di truffa, si creerebbe, nel sistema, un singolare "privilegio" nel trattamento sanzionatorio di ipotesi di frodi in teoria più gravi, perchè realizzate contro enti pubblici (addirittura con semplice sanzione amministrativa, se la somma indebitamente percepita è inferiore alla soglia prevista dallo stesso art. 316 ter cod. pen.), rispetto al trattamento riservato alle truffe commesse in danno di privati.

Il corollario che se ne può trarre, propone, dunque, una alternativa ineludibile: o si ritiene che la semplice "presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero ... l'omissione di informazioni dovute" non sia più condotta qualificabile come artifizio o raggiro agli effetti di quanto previsto dall'art. 640 cod. pen., come il giudice a quo e parte della dottrina sostengono; oppure, occorre riconoscere che anche quei "fatti" possono integrare gli artifizi o raggiri descritti dal delitto di truffa. La richiamata ordinanza della Corte costituzionale, come già si è accennato, mostra di propendere chiaramente verso quest'ultima soluzione, sottolineando come rientri "nell'ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter c.p. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis, c.p., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest'ultima previsione punitiva". Non senza però aver poco prima puntualizzato, come debba riconoscersi all'interprete - e, dunque, al giudice - il compito di accertare i concreti margini di operatività dell'art. 316 ter cod. pen., sempre, peraltro, nel rispetto della "inequivoca vocazione sussidiaria" di tale norma, misurandone l'entità, come già si è accennato, alla stregua delle "più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli "artifizi e raggiri", in qualunque forma realizzati, sia al requisito della induzione in errore".

Poichè, quindi, artifizi e raggiri continuano a permanere nel sistema come condotte in sè strutturalmente variegate e contenutisticamente "aperte", se ne deve desumere che, ove il legislatore ne avesse inteso circoscrivere l'ambito, avrebbe operato - claris verbis - sulla struttura dello stesso art. 640 cod. pen., e non certo attraverso una norma "di confine", destinata a colmare un'area di condotte (a torto o a ragione) ritenute non punibili a titolo di truffa.

Pretendere quindi di derivare dall'art. 316 ter un "indicatore" normativo destinato a produrre un "prosciugamento" contenutistico delle condotte che possono integrare artifizi e raggiri, equivarrebbe ad introdurre - a parere di questa Corte - un arbitrio ermeneutico, produttivo di sicuri effetti incostituzionali, contrario alla dichiarata mens legis e certamente antitetico rispetto a quella "vocazione sussidiaria", che la norma stessa - stavolta con inequivoco ed espresso esordio precettivo - ha inteso programmaticamente enunciare, come "marcatore" rispetto alla figura della truffa aggravata a norma dell'art. 640 bis, cod. pen.. Ciascuna delle condotte indicate dallo stesso art. 314 ter cod. pen., può dunque concorrere ad integrare, in ipotesi, gli artifizi e raggiri previsti per la realizzazione del delitto di truffa: sempre che, ovviamente, di tale figura vengano integrati anche gli ulteriori presupposti. Il problema sta quindi nel calibrare, come ha rammentato la Corte costituzionale, lo spazio entro il quale un determinato comportamento, eventualmente corrispondente alle figure descritte dall'art. 316 ter cod. pen., realizzi le più che tradizionali forme degli artifizi o raggiri, dai quali derivi, poi, l'ulteriore requisito della induzione in errore (si è anzi evidenziato, a quest'ultimo riguardo, come nella fattispecie di cui all'art. 316 ter difetti, rispetto alla ipotesi della truffa, proprio l'elemento della induzione in errore: il che, ad avviso di alcuni commentatori, consentirebbe di intravedere un margine residuale di applicabilità dello stesso art. 316 ter cod. pen. nelle ipotesi, ad esempio, dell'approfittamento dell'errore altrui, o della condotta che si iscriva nell'ambito di un procedimento che non comporti alcuna verifica sulla veridicità delle dichiarazioni del soggetto attivo o delle relative semplici omissioni).

In proposito, la dottrina, come è noto, è da tempo sostanzialmente concorde nel definire l'artifizio come una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o, al contrario, con la dissimulazione di circostanze esistenti. Attraverso, dunque, una più o meno callida "messa in scena", si realizza una realtà apparente, in varia misura difforme da quella effettiva, attraverso una immutatio veri che può attingere qualsiasi elemento del mondo circostante. Il raggiro, invece, operando direttamente sulla psiche del soggetto, viene fatto consistere in una proposizione menzognera corredata di un ingegnoso avvolgimento di parole od argomentazioni atte a far scambiare il falso per vero.

Come, però, si è sottolineato in dottrina - puntualmente rammentata dal Procuratore generale nella propria requisitoria - la giurisprudenza di questa Corte ha gradualmente finito per svalutare il ruolo della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del reato in senso causale, ove ciò che rilevava non era tanto la definizione dei concetti di artifizi e raggiri, quanto, piuttosto, la idoneità di quelle condotte a produrre l'effetto di induzione in errore del soggetto passivo. Si è così assistito al consolidarsi dell'affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di truffa, l'idoneità dell'artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso; tale idoneità - si è aggiunto - non è perciò esclusa dalla esistenza di preventivi controlli, nè dalla scarsa diligenza della persona offesa nell'eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un raggiro posto in essere dall'agente e si accerti che tra di loro e l'errore in cui la parte offesa è caduta sussista un preciso nesso di causalità (Cass., Sez. 6^, 25 febbraio 2003, Di Rosa; Cass., Sez. 5^, 27 marzo 1999, Longarini; Cass., Sez. 1^, 7 dicembre 1990, Ricci;

Cass., Sez. 2^, 14 novembre 1989, Scarcelli). Da tale svalutazione della portata definitoria e precettiva degli artifici e raggiri, in una prospettiva tutta tesa a privilegiare una disamina causalmente orientata della fattispecie, sarebbe così derivata, secondo alcuni, una dilatazione del raggio d'azione della truffa, sino ad attrarre - quali elementi idonei ad indurre in errore (e come tali riguardagli alla stregua di artifizi o raggiri, secondo una visione per così dire "retrograda", che ricostruisce le cause dagli effetti), condotte in sè "neutre", come il silenzio, o il mendacio.

Come ricorda la già citata sentenza delle Sezioni unite Panigoni, "indubbiamente potrebbe riproporsi la questione se il concetto di "artifizi o raggiri" sia integrato anche dalla menzogna pura e semplice e cioè dalla menzogna che, anche senza particolari modalità ingannatorie "aggiuntive", abbia determinato l'errore nel soggetto passivo. Questione - avvertivano le Sezioni unite - senz'altro seria, potendosi ritenere che - senza quella "forzatura" del concetto di artifizi e raggiri riconosciuta da dottrina e giurisprudenza ... - la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri".

Eppure, non v'è chi non veda come silenzio e mendacio cessino di essere elementi strutturalmente neutri, per assumere, invece, connotazioni senz'altro "artificiose" o di "raggiro" in rapporto a specifici obblighi giuridici che qualifichino l'omessa dichiarazione o la dichiarazione contraria al vero come artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto o manopolazione della altrui sfera psichica in rapporto allo specifico valore fidefacente che la dichiarazione contraria al vero può assumere nell'ordinamento.

L'omesso adempimento dell'obbligo di comunicazione, così come la "semplice" menzogna, al di là dell'effetto di induzione in errore, possono già di per sè integrare - in ragione dello specifico affidamento che quelle stesse condotte, in positivo o in negativo, possono, ex lege, ingenerare - le caratteristiche della artificiosa mise en scene che rappresenta l'in se della truffa (Cass., Sez. 6^, 3 aprile 1998, Perina; Cass., Sez. 2^, 19 aprile 1991, Salvalaio; Cass. Sez. 2^ 23 giungo 1989, Della Torre).

La conclusione, dunque, lumeggiata dal giudice a quo e, come si è accennato, condivisa da una parte della dottrina, secondo la quale l'innesto dell'art. 316 ter cod. pen. restringerebbe l'area degli artifizi e raggiri ponendo in seria crisi la perdurante proponibilità delle tesi giurisprudenziali dianzi riferite, non può trovare accoglimento: il carattere necessariamente sussidiario di quella fattispecie, infatti, ne esclude la configurabilità alla stregua di "frode minore", per consentirne l'inquadramento in una apposita categoria di fattispecie "altra" (e dunque alternativa) rispetto alla truffa, i cui elementi tipizzanti erano e restano quelli contrassegnati da una lunga e consolidata tradizione ermeneutica.

La condotta descritta dal richiamato art. 316 ter cod. pen. si distingue, dunque, dalla figura delineata dall'art. 640 bis cod. pen. per le modalità, giacchè la presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere deve essere "fatto" strutturalmente diverso dagli artifizi e raggiri, e per la assenza della induzione in errore, considerato che ove l'ente erogante fosse stato in concreto "circuito" attraverso la produzione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi, il fatto finirebbe per essere attratto nell'ambito della clausola di salvezza con cui lo stesso art. 316 ter cod. pen. esordisce. La sussistenza, dunque, della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall'altro, non può che formare oggetto - come puntualmente ha segnalato la Corte costituzionale e come per certi aspetti induce a ritenere una pertinente lettura della sentenza Panigoni - di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzino la vicenda in concreto. Non senza sottolineare come, la stessa collocazione topografica dell'art. 316 ter cod. pen., e gli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel corpo della norma, chiaramente mostrino la volontà del legislatore di perseguire la semplice percezione sine titulo delle erogazioni, e non le "modalità" attraverso le quali l'indebita percezione si è realizzata; svelando, per questa via, la scelta di non incentrare la voluntas puniendi, sulle condotte nelle quali l'erogazione è stata realizzata attraverso la frode ed il conseguente errore dell'ente erogante, nella dichiaratapresupposizione che tale fatto fosse già "coperto" dalla previsione dettata dall'art. 640 bis cod. pen.. In questa prospettiva, è ben vero che l'area applicativa della figura "sussidiaria" finisce per circoscriversi ad ipotesi che, nel panorama della più estesa tematica delle frodi, rischiano di assumere connotazioni del tutto marginali: ma ciò risponde, a ben guardare, proprio alla scelta - imposta dagli obblighi comunitari - di non lasciare nulla di "impunito" nello specifico settore, in linea, dunque, con il carattere, non soltanto sussidiario, ma anche "residuale" che - come ricorda l'ordinanza n. 95 del 2004 della Corte Costituzionale - caratterizza l'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen..

Resta ovviamente irrisolto il più generale problema di definire i margini di soluzione delle possibili "frizioni ermeneutiche" cui ineluttabilmente si può andare incontro nel tracciare una sorta di actio finuim regundorum tra le due figure di reato. Ma, per quel che qui rileva, sembra dirimente osservare che - come ha correttamente puntualizzato il Procuratore generale presso questa Corte - la natura e la forma del "mendacio" assumono connotazioni ben diverse alla luce del contesto "normativo" in cui esse si iscrivono. Altro è, infatti, la dichiarazione o il documento nei quali si prospettano circostanze non vere, senza che sul dichiarante incomba uno specifico obbligo di verità; altro è l'identica prospettazione o produzione documentale ove, invece, quell'obbligo sussista in forza di una specifica previsione. Nell'ipotesi, poi, in cui - come nella vicenda in esame - non soltanto l'obbligo di verità sia positivamente sancito dalla legge, ma sia addirittura presidiato da una apposita figura di reato, ne consegue che la "trasmigrazione" di un siffatto "mendacio" nell'area degli artifizi e raggiri deve ritenersi senz'altro realizzata.

E' del tutto evidente, infatti, che, mirando la sanzione penale ad assicurare la certezza e la speditezza del traffico giuridico, la veridicità dell'atto così presidiato è destinata a suscitare uno specifico affidamento nei destinatari del relativo contenuto dichiarativo o attestativo; con la conseguenza che la relativa immutatio veri da parte dell'autore è in grado di inscenare una artificiosa rappresentazione della realtà, in sè atta ad indurre in errore quanti - non per scelta soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente di quell'attestato o documento - erano tenuti ad una condotta di "affidamento" quali destinatari di tali atti. In tale cornice ben si iscrive, dunque, proprio la vicenda oggetto del presente scrutinio, giacchè, come emerge dalla imputazione e dalla stessa sentenza impugnata - nella quale si da atto di come diverso debba essere l'epilogo in ordine al reato di cui all'art. 483 cod. pen., contestato al capo A) - la truffa ai danni della Azienda Ospedaliera si sia realizzata con artifizi e raggiri consistiti, appunto, "nel rendere la falsa dichiarazione sostitutiva di certificazione di cui al capo che precede". Falso contestato, appunto, sub specie di cui all'art. 483 cod. pen., art. 61 cod. pen., n. 2, in relazione al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 76, comma 3, e art. 46, lettere o) ed r), perchè - si legge nella rubrica, "con dichiarazione resa ad impiegato addetto all'ufficio ticket dell'Ospedale di Patti, autocertificava, con ciò attestando il falso, di essere disoccupato o licenziato, e comunque che il proprio nucleo familiare era titolare di un reddito non superiore a quello previsto per l'attribuzione del diritto alla fruizione delle prestazioni mediche richieste in regime di esenzione contributiva".

Posto, quindi, che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono destinate a "provare", come recita il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 46, comma 1, determinati stati, qualità personali e fatti, e considerato che tali dichiarazioni "sono considerate come fatte a pubblico ufficiale" e, se mendaci, sono punite "ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia" (art. 76 del medesimo decreto), ne deriva che il relativo valore e regime giuridico equivale, in tutto e per tutto, alle normali e corrispondenti certificazioni pubbliche, con tutto quel che ne consegue sul piano dell'affidamento che in esse doverosamente va riposto, alla stregua di una precisa e cogente scelta normativa. Donde la sussistenza, nel caso concreto, di una condotta che presenta tutti i "requisiti" per poter ritenere nella specie integrati gli artifizi e raggiri atti ad indurre in errore la parte offesa, e, quindi, permettere le conseguenti delibazioni, sia pure agli effetti del circoscritto ambito processuale che qui rileva, in ordine alla ravvisabilità del contestato delitto di truffa aggravata, di cui all'art. 640 cod. pen., comma 2. 3. La sentenza deve in conseguenza essere annullata.

A norma dell'art. 569 cod. proc. pen., comma 4, gli atti vanno trasmessi alla Corte di appello di Messina competente per l'appello, che si atterrà ai principi di diritto indicati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e dispone che gli atti siano trasmessi alla Corte di appello di Messina per l'ulteriore corso.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2006.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2006

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