favole

  1. INTERISTA
    INTERISTA
    Le tre voglie

    C'era una volta un uomo che non era per niente ricco; si sposò con una donna bellina.
    Una sera, era d'inverno, stavano a sedere sul canto del fuoco e parlavano delle grandi soddisfazioni dei loro vicini, che erano più ricchi di loro.
    - Ma oh - disse la moglie - se potessi avere io tutto quello che voglio, sarei di certo più soddisfatta e contenta di quelli là. -
    In quel preciso momento videro apparire lì nella stanza una bella signora che gli disse:
    - Dato che sono una fata, prometto di concedervi le prime tre cose che chiederete. Ma, occhio: dopo le prime tre non vi concederò più niente. -
    - Per me - disse la moglie - so benissimo quello che mi fa voglia: ancora non lo dico, ma mi sembra che non ci sia niente di meglio che essere bella, ricca e gran signora.-
    - Ma sentila - disse il marito - perché, anche sistemato così, a uno non può succedere di essere malato, di essere triste, di morire giovane? Meglio, molto meglio sarebbe chiedere salute, allegria e una vita più lunga. -
    - Ma che se ne fa della vita lunga uno che è povero vergognoso? - rispose la moglie - Per far bene, la fata avrebbe dovuto promettercene almeno una dozzina di questi regali -
    - In questo sono d'accordo con te - disse il marito - ma non facciamoci prendere dalla furia. guardiamo bene, da qui a domattina, di capire quali sono le tre cose che ci sono più necessarie; e poi chiediamole. Mentre si aspetta mettiamo un altro po' di legna sul fuoco, perché mi è preso freddo. -
    Subito la moglie prese le molle e rassettò il fuoco e quando vide che tutti i tizzi avevano ripreso a bruciare benissimo, disse senza pensarci:
    - Con questo bel fuoco vorrei avere un pezzo di buristio per la nostra cena: arrostirebbe da fare invidia. -
    Non aveva finito di dirlo che dalla cappa del camino venne giù un buristio intero, unto, nero di sangue di maiale, che era una delle sette meraviglie.
    - Che ti venga un canchero in cotesta gola!- berciò il marito. - Ora non ci rimane che due cose da chiedere. Per me mi fai tanta bile che vorrei che quel buristio ti venisse sulla punta del naso. -
    Detto fatto, il marito si accorse di essere stato anche più matto della moglie perchè, con questa seconda richiesta, il buristio era saltato al naso di quella povera donna e non c'era più verso di staccarlo.
    - Chi ha mai conosciuto una donna più disgraziata di me! - disse urlando e piangendo la moglie.
    - Sei davvero una bella carogna, se avevi voglia di vedere questo buristio sulla cima del mio naso! -
    - Moglie mia te lo giuro, non ci ho proprio pensato. Vuol dire che ora chiederò grandi ricchezze e così potrò farti fare un astuccio tutto d' oro e pietre dure per conservare e nascondere codesto buristio.
    - Levatelo subito dalla testa - strillò ancora più roca la moglie - mille volte preferirei ammazzarmi piuttosto che vivere con questa specie di salame morbido attaccato al naso. Dammi retta non ci resta che una voglia da dire, lasciatela dire a me o mi butto subito dalla finestra. -
    - Fermati, cara moglie! Ti lascio chiedere tutto quello che vuoi -
    - Allora - disse la moglie - chiedo che il buristio caschi per terra. -
    Subito il buristio si staccò e la donna, che era sveglia di mente disse al marito:
    - La fata ci ha preso per il bavero; e forse ha fatto bene. Può anche darsi che saremmo stati più disgraziati di come lo siamo ora. Credimi, marito mio, è meglio avere meno voglie e prendere le cose come vengono, come Dio le manda; e mentre si aspetta vediamo di far cena con questo buristio, che di tutto quello che si è chiesto è tutto quello che si è avanzato. -
    Il marito pensò che la moglie aveva ragione: cenarono di buonissimo umore e non s' impicciarono più delle cose che avrebbero avuto voglia di avere.
  2. INTERISTA
    INTERISTA
    La diligenza a dodici postiLa notte era gelida e limpidissima: il cielo brillava di stelle. L'orologio della chiesa scoccò dodici rintocchi, e subito i mortaretti incominciarono a scoppiettare e una vecchia latta volò fuori da una finestra, perché era l'ultima notte dell'anno. In quel preciso momento, una vecchia diligenza sconquassata venne a fermarsi alla porta della città; portava dodici viaggiatori, quanti erano i posti.
    I nuovi arrivati scesero dalla diligenza. Tutti erano forniti di passaporto e di bagaglio e portavano persino dei doni per me, per voi, per tutti.
    - Buon anno! - augurò la sentinella. - avanti il primo: dichiarate nome e professione.
    Il primo viaggiatore era tutto avvolto in una pelliccia d'orso e calzava stivaloni di pelo.
    - Potete consultare il mio passaporto-disse - io sono colui a cui tutti guardano sempre con speranza. Distribuisco mance e regali, e ne darò uno anche a voi, se verrete a trovarmi domani. Faccio inviti e feste di ballo, ma non posso darne più di trentina. Le mie navi sono imprigionate in mezzo ai ghiacci, ma nella mia casa fa caldo. Mi chiamo Gennaro.
    - Avanti il secondo - disse allora la sentinella.
    Questi era un personaggio gioviale e pazzerellone: organizzava balli e divertimenti di ogni genere. Portava seco un grosso barile.
    - Quando c'è questo, c'è baldoria - dichiarò. - Voglio stare allegro, perché ho poco tempo da vivere: ventotto giorni soltanto. Ogni tanto mi aggiungono un altro giorno per la buona misura, ma non ne faccio gran calcolo. - Poco chiasso! - ammonì la sentinella.
    - Io posso fare tutto il chiasso che voglio - replicò l'altro. - Sono il Principe Carnevale, ma viaggio in incognito sotto il nome Febbraio.
    Il terzo viaggiatore era magro come la quaresima. Studiava il cielo camminando col naso in aria, perché predicava il tempo e le stagioni. Al risvolto della giacca portava un mazzolino di violette piccine, piccine. Il quarto viaggiatore gli batté la mano sulla spalla.
    - Don Marzo, - esclamò sento odor di punch! Nella saletta dei doganieri stanno preparando la tua bevanda preferita. Corri subito a vedere!
    Non era vero: il nuovo venuto voleva soltanto giocare un tiro al suo compagno di viaggio; infatti si chiamava Aprile e incominciava la sua carriera con un pesce. Aveva un aspetto gaio, forse perché lavorava poco.
    Dopo di lui scese una bella fanciulla che si chiamava Maggiolina. Indossava un vestito color dell'erba tenera. Aveva nei capelli un mazzolino di anemoni e profumava di tino. Quel profumo era tanto forte che la sentinella starnutì.
    - Dio vi benedica! - disse la fanciulla.
    - Fate largo che scende la dama di Giugno - avvertì il cocchiere.
    La signora scese. Era una dama molto bella e un poco altera. L'accompagnava Luglio, suo fratello minore. Questi era un giovane grassoccio, indossava abiti estivi e portava sulla testa un largo cappello di panama.
    Un po' affannata e rossa in viso scese poi Mamma Agostina. Era una venditrice di frutta, proprietaria di molti terreni, sempre in faccende.
    Dalla diligenza, dopo di lei, sbucò un pittore: il professor Settembre. Aveva per sbaglio i tubetti del colore, perché il colore era la sua passione. Infatti appena entrava nelle foreste, gli alberi e le foglie sfoggiavano la più variopinta magnificenza; qua rosso acceso, là giallo, più in là bruno dorato.
    Comparve poi un gentiluomo di campagna, il Conte Ottobre. Amatissimo della caccia, portava con sé il fucile, il cane e il carniere pieno di noci.
    Novembre, il suo compagno, era tormentato da una violenta infreddatura. Era provveditore dei Focolari e doveva pensare alle provviste di legna, spaccarla e segarla.
    E finalmente ecco l'ultimo viaggiatore: Nonno Dicembre, che stringeva lo scaldino fra le mani. Era freddoloso e intirizzito, e portava in braccio anche un piccolo abete.
    - Voglio che cresca tanto da toccare il soffitto, alla sera di Natale - disse, - Così si potrà adornarlo con palle d'argento, candeline colorate e angioletti.
    Il doganiere lo interruppe:
    - Ogni passaporto è valido per un mese - avvertì. - Io lì ritirerò e, scaduto il tempo consentito, scriverò le note relative alla vostra condotta.
    Finito l'anno, cari lettori, credo che anch'io saprò dirvi che cosa i dodici viaggiatori avranno portato in regalo a me, a voi, a tutti, ma per ora davvero non lo so! Forse non lo sanno neanche loro. Si vive in tempi così strani…


  3. INTERISTA
    INTERISTA
    La volpe e il lupoIntorno alla metà agosto, nei giorni precedenti la festività di S. Rocco, il bosco tra Ripacandida, Forenza e Ginestra è attraversato da carri che trasportano vari animali, soprattutto maiali. Secondo una tradizione che si perde indietro nel tempo, a Ripacandida, piccolo borgo insediato sulla sommità di una collina, il giorno di S. Rocco ha luogo una grande fiera. Nella notte, si festeggia con rudimentali fuochi d’artificio, sullo sfondo di campi rigati dalle stoppie che bruciano. Da tutto il circondario arriva gente per la compravendita dei vari animali. Ma l’attrazione principale sono i maiali, acquistati generalmente uno per famiglia, che sono fatti crescere, all’ingrasso, in angusti caselli e, infine, macellati alle soglie dell’inverno. Il lupo e la volpe, che in quel bosco sono gli animali dominanti, vedono passare quei carri trasportare una serie di animali, la maggior parte dei quali, appunto, tozzi, rosei e senza pelo. Carri che vanno verso il paese carichi, e che tornano indietro scarichi. Incuriositi seguono i carri, fino al limite del bosco, che è separato dal paese soltanto da una stretta vallata.
    In quel tempo, l’asino o la mula sono il principale mezzo per muovere persone e cose, la corrente elettrica è stata scoperta, ma non è ancora una risorsa utilizzabile in quei luoghi, e gli inverni sono freddi e nevosi. La legna del bosco scalda le case, quasi sempre solo l’ampio locale in ingresso, che è dominato dalla cucina in muratura, con annesso focolare, fuochi per le pentole e forno per il pane e le focacce. Il calore del focolare e della cucina non arriva nelle stanze da letto. I carboni ancora appena ardenti sono trasferiti dal focolare in appositi ‘scaldini’, per riscaldare, se non le stanze, almeno i letti. Le famiglie sono numerose e gli spazi sono limitati. Questo significa poche stanze, ciascuna con tanti letti. Oppure, nel caso di famiglie molto povere, un'unica grande sala con locali separati da tendoni. In cucina, di solito in un sottoscala, è ricavato lo spazio per il pollaio e la conigliera. Il sottotetto ospita un’altra piccola stanza e la piccionaia. L’angusto spazio per il maiale, il casello, è all’esterno, come la stalla per l’asino o per la mula. La casa è concepita per uomini e animali, in modo che la famiglia abbia risorse essenziali per mantenersi in autonomia. Il latte, altra importante risorsa alimentare, viene venduto porta a porta, al mattino, trasportato in bidoni metallici e distribuito mediante contenitori metallici che ne misurano la quantità.
    A quell’estate, un’estate torrida, segue il più rigido e nevoso inverno che il lupo e la volpe, e non solo loro, ricordino. Un inverno interminabile, che non concede cibo a chi non sia in letargo. I due animali, di giorno in giorno sempre più deboli, si ritrovano, quasi senza accorgersene e spinti dall’istinto di sopravvivenza, al limite del bosco. Di fronte c’è Ripacandida, il paese del traffico di quegli strani animali color rosa. Il lupo e la volpe si guardano l’un l’altro e, con passo lento e strascicato, senza neanche un cenno d’intesa, si avviano giù verso la valle.
    Giunti in paese, nevica fitto. Nel silenzio del tardo pomeriggio, le strade sono deserte. Rasentando i muri, il lupo e la volpe si trovano davanti a un imponente portone di legno. Alla base del portone, un buco circolare nel legno permetterebbe di guardare dentro il locale. Ma i due animali, prima ancora di realizzare l’idea di guardare attraverso il buco, sentono nell’aria, proveniente da quel buco, caldo odore di cibo. Passa meno di un istante tra il guardare all’interno del locale, una cantina, ed entrarvi, con una certa difficoltà, perché il buco è abbastanza stretto. Ma loro due sono estremamente magri. Ed ecco cosa sono diventati tutti quegli strani animali dalla grande pancia e dalle gambe corte! Salsicce, soppressate, salami, trippa, prosciutti. E, ancora, sugli scaffali, quanti formaggi, di ogni tipo e forma! Il lupo e la volpe sono disorientati. Non sanno neanche con quale cibo cominciare. Sanno solo che, ora, possono nutrirsi, finalmente. E cominciano a mangiare, passando da un cibo all’altro, con frenesia.
    A un certo punto, la volpe guarda la pancia del lupo che diventa sempre più grande, a vista d’occhio. Poi guarda la sua pancia, e quindi il buco da dove sono entrati. Si avvicina al buco e fa una prova per capire se sarebbe riuscita a uscire. Ci sarebbe riuscita, seppure a fatica. Decide allora di non mangiare altro, ma di portare con sé del cibo da consumare fuori dalla cantina. Lei sì, si sente proprio furba, altro che il lupo! ‘Quello stupido animale – dice a se stessa la volpe – continua a mangiare senza sosta e senza pensare a null’altro. Voglio proprio vedere come farà ad uscire dal quel buco nel portone.'
    Neanche il tempo di terminare la frase e una porta interna alla cantina, cigolando, si apre. Un omone grosso e un po’ impacciato si fa avanti. Il padrone della cantina. L’uomo fa un saltello indietro, sorpreso dal vedere prima il disordine generale, poi i due animali. Il lupo e la volpe, a loro volta, fissano l’uomo, pronti a scappare. L’uomo incrocia gli sguardi, prima verso il lupo, poi verso la volpe, quindi si guarda intorno. Trova un bastone, lo prende e comincia a inseguirli, ansimando e con poca agilità. La volpe si dirige immediatamente verso il buco del portone e riesce a uscire e a mettersi in salvo. Il povero lupo, dopo esser sfuggito all’omone correndo lungo i muri della cantina, esausto e appesantito dal cibo ingerito, tenta anch’egli di uscire attraverso il buco. Ma ha mangiato troppo e la pancia, strapiena di cibo, è troppo grande e non gli permette di uscire. E allora, ‘titingh’ e titanghe, titingh’ e titanghe, titingh’ e titanghe’,1 sul lupo si abbattono i colpi di bastone del padrone della cantina.
    Malridotto, pieno di lividi e con qualche osso incrinato, il lupo, subìta la dura lezione, è lasciato libero di uscire. Zoppicando, si dirige lentamente verso il bosco. Dopo un breve tratto di strada, viene avvicinato dalla volpe, che gli dice, con voce sofferente: ‘Caro mio, ce la siamo vista brutta! Quante botte!’
    ‘Eh sì – risponde il lupo con la voce strozzata per il dolore – guarda come sono ridotto, non sto sulle zampe. Ma tu dov’eri?’
    ‘Non mi avrai visto. Quell’uomo, dopo aver picchiato te, ha picchiato anche me.’ A quel punto, la volpe prende una forma di ricotta, che aveva portato con sé uscendo dalla cantina, la estrae dal cestello che la contiene, e se la appoggia sulla testa.
    ‘Guarda – dice al lupo – tu avrai le ossa rotte, ma io ho la testa spaccata, e il cervello è uscito fuori.’
    ‘O povera volpe, chissà come starai male!’ ‘Male, male, molto male, – conferma la volpe – sono paralizzata talmente da non riuscire quasi neanche a muovermi. E dobbiamo rientrare nel bosco. La strada è lunga e innevata.’ Dopo una breve pausa, la volpe aggiunge:
    ‘Caro amico lupo, non potresti portarmi su di te?’
    Il lupo, pur sofferente e zoppicante, comprende che la volpe sta molto peggio di lui. E allora, se la carica addosso e comincia, con molta fatica, a dirigersi verso il bosco. La volpe, soddisfatta di se stessa e della sua furbizia, comincia a ripetere un lamentoso e ambiguo ritornello:
    ‘E lu stuort’ porta lu dritt’, e lu stuort’ porta lu dritt’, e lu stuort’ porta lu dritt’.’ Dopo non molta strada, però, inavvertitamente un pezzo di ricotta cade dalla testa della volpe e finisce sulla neve, proprio davanti al lupo. Dapprima sorpreso, il lupo realizza quasi immediatamente che non si tratta di cervello, ma di ricotta. Capito l’inganno, prima che la volpe ripeta ancora una volta il perfido ritornello, il lupo scaraventa giù la volpe e, con le ultime forze rimaste, la riempie di botte.

    Note
    1. Termini onomatopeici dialettali che rendono l’idea delle percosse.
    2. La ricotta è conservata in cestelli di frasche intrecciate e, una volta fuori dal contenitore, prende una forma esterna somigliante alle circonvoluzioni cerebrali.
    3. Il ‘dritto’ non è solo il fisicamente integro, rispetto allo ‘storto’/storpio, ma anche il più furbo.
  4. INTERISTA
    INTERISTA
    i due orfani e la mucca
    Un cacciatore aveva sposato una donna che non poteva avere figli, decise allora di sposarne una seconda che gli diede due gemelli. Purtroppo la donna morì e la prima moglie, molto invidiosa dei due bambini cercava ogni pretesto per sbarazzarsene. Un giorno il cacciatore ritornò dalla caccia con due pernici, la moglie disse che non erano sufficienti per sfamare tutta la famiglia e convinse il marito ad abbandonare i figli nel bosco. L’uomo insieme ai figli, lasciò anche una mucca e raccomandò loro di sgozzarla non appena fosse diventata bella grossa.

    I due fratelli si nutrirono con il latte della mucca, crescendo così sani e robusti, ma la mucca non ingrassava e essi decisero di chiedere consiglio ad un corvo. Il corvo li pregò di piangere nella cavità dove stavano i suoi piccoli per poterli far bagnare e per ringraziarli avrebbe dato loro l’opportunità di sgozzare la mucca. Volò fino al macello, con il becco prese un po’ di grasso e lo spalmò intorno alle narici della mucca. Quando i due fratelli videro questo grasso, sgozzarono la mucca, la scuoiarono e divisero la carne in quattro parti. Attirato dall’odore del sangue fresco, si fece avanti un leone e pretese la sua parte. I due fratelli gli lanciarono la testa, ma il leone pretendeva di più, gli lanciarono una parte, ma il leone non si accontentò e furono costretti a lanciargli l’intera mucca. Il leone non era ancora sazio e ormai rimanevano solo i due fratelli. “Scannatevi” disse il leone “il più forte mi getterà il perdente”. I due lottarono a lungo, ma nessuno vinse, ambedue caddero esausti ai piedi del leone. Questi li infilò nella pelle della mucca e li abbandono lungo la strada che portava al mercato.
    Passò un cammello, sentì gridare i due fratelli e chiese loro che li avesse chiusi lì dentro. “Il leone“ risposero i due fratelli. “Il leone è troppo forte, non posso liberarvi” replicò il cammello e tirò innanzi.
    Passò un mulo, stessa domanda, stessa risposta, anche lui si rifiutò di aiutarli. Cosi pure un asino. Solo un riccio che cavalcava una gallina non ebbe esitazioni e sfoderata la sciabola squarciò la pelle di mucca restituendo la libertà ai due fratelli. Quando il leone ritornò e trovò la pelle vuota chiese a tutti gli animali chi fosse stato a liberarli. Tutti negarono, tranne il riccio che con orgoglio ammise di averlo fatto. Il leone lo sfidò. Raccolse attorno a sé tutti i grandi animali e li dispose uniti per la battaglia. Anche il riccio riunì tutti i piccoli insetti che pungono: api, vespe, zanzare, ma non li mostrò. Quando iniziò la battaglia, i grossi animali punti da sciami di insetti, fuggirono e il leone fu il primo a rientrare nel suo covo. Il riccio lo inseguì, prese una piuma della gallina che cavalcava e la piantò davanti alla tana del leone.
    Ogni volta che il leone guardava fuori, vedendo la piuma, pensava che il riccio fosse ancora lì e non uscì più fino a morire di fame.
  5. splendore
    splendore
    Che belle non le avevo mai lette!!!!!!!!!!!! ho trascorso un bel pomeriggio!!!!!!!!! grazie!!!!!!
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