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Poca ansia siamo italiani, i perché di un primato


Soffriamo meno degli altri europei di depressioni e disagi. Registriamo meno suicidi e alcolismo. Grazie a famiglia e coesione sociale.
di Nicola Nosengo

Strizza cervelli


Poca ansia siamo italiani


Gli italiani sono i meno depressi d'Europa. Non solo: soffrono meno degli altri europei (e molto meno degli americani) anche di ansia, attacchi di panico e della maggior parte degli altri disturbi psichici. È questa la fotografia che emerge dallo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders), che ha indagato la diffusione dei principali disturbi mentali in sei paesi europei, nell'ambito di uno studio comparativo a livello mondiale promosso dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, il World Mental Health Survey Initiative. I dati dicono che l'11 per cento degli italiani in qualche momento della vita soffre di un qualche disturbo affettivo (quindi la depressione nelle sue varie forme), e un altro 11 di qualche disturbo d'ansia. Non che 11 persone su cento siano poche, certo. Ma sono meno delle 14 che soffrono di depressione e delle 16 con disturbi d'ansia rilevate come media europea. E il vantaggio appare addirittura abissale se si fa il confronto con gli Stati Uniti. I National Institutes of Health dicono che nel corso di un anno un americano su cinque soffre di un qualche disturbo mentale. E secondo una ricerca condotta dall'American College Health Association, più del 30 per cento degli universitari americani dichiarano di soffrire di ansia e depressione.

Secondo Giovanni de Girolamo, psichiatra presso il dipartimento di Salute Mentale dell'Asl di Bologna, e in quanto tale tra i responsabili dello studio, ci sono molti buoni motivi per fidarsi dei dati di ESEMeD. "È stato fatto secondo criteri statistici molto rigorosi, e il metodo d'intervista era convalidato dall'Oms", spiega: "Inoltre, altri studi condotti con metodologie in buona parte diverse hanno dato risultati quasi identici". De Girolamo si riferisce in particolare allo Studio di Sesto Fiorentino, pubblicato su 'Psychoterapy and Psychosomatics' lo scorso agosto. Nonostante l'uso di un metodo di intervista molto diverso e il campione limitato a una singola area geografica, i numeri sulle principali patologie psichiche sono sorprendentemente simili.

Ma ci sono anche prove indirette che la situazione sia migliore in Italia rispetto ad altri paesi, prosegue lo psichiatra: "L'Italia è tra i paesi europei in cui il tasso di suicidi è più basso, e il suicidio è nella grande maggioranza dei casi collegato a episodi di depressione. E siamo anche il paese in cui il consumo pro capite di alcol è calato di più nell'ultimo decennio". Un'ulteriore conferma arriva poi da un terzo studio, il Progetto Prisma, curato dall'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Eugenio Medea di Bosisio Parini, Lecco. Che riguarda un problema in crescita, ma ancora poco indagato: i disturbi mentali in età evolutiva. Prisma era la prima grande indagine epidemiologica sulla salute mentale dei preadolescenti italiani, e ha riguardato un campione di oltre 5 mila ragazze e ragazzi tra i dieci e i 14 anni in 40 scuole di sette città italiane

I risultati dicono che nove preadolescenti italiani su cento soddisfano i criteri standard per la diagnosi di un disturbo psichico. È vero, il numero spaventa, ma sempre meno dei 20 ragazzi su cento di cui parlano i dati americani dell'American Academy of Child and Adolescent Psychiatry.

Insomma, in quanto a salute mentale stiamo davvero un po' meglio del resto del mondo occidentale. Ma perché? De Girolamo fa notare che i dati spagnoli sono paragonabili ai nostri, e che si può ipotizzare che i popoli mediterranei siano meno esposti ai disturbi affettivi e dell'umore, per un effetto protettivo delle relazioni familiari e della struttura sociale. "Ma si non ci sono studi che ci diano una spiegazione di quei dati, e azzardarne una è molto difficile".

Qualcuno però prova a farlo, tra gli operatori della salute mentale. Secondo Giuseppe dell'Acqua, responsabile del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e animatore del Forum Salute Mentale, che riunisce operatori del settore in tutta Italia, "quei dati sono anche il frutto di un modello di assistenza che rimane un caso praticamente unico nel mondo occidentale". Il riferimento è alla strada, intrapresa in Italia sin dal 1978, della chiusura dei manicomi e dell'assistenza psichiatrica portata sul territorio, nelle cliniche e nelle comunità terapeutiche, e al clima culturale che si è accompagnato a quel movimento, anche a prescindere dalle difficoltà che l'attuazione della legge ha comportato. "Da noi esiste un'accessibilità ai servizi di salute mentale che riesce ad attutire l'impatto del disagio. Senza dimenticare che la chiusura dei manicomi ha cambiato la percezione della malattia mentale, che a sua volta ne influenza in qualche modo la diffusione. Chi vive in un paese dove il disturbo mentale è meno stigmatizzato, è meno portato a vivere come patologica anche la depressione o l'angoscia passeggera".

Nessuno ha però troppa voglia di crogiolarsi in quei dati. Che saranno pure buoni rispetto ad altri Paesi, ma parlano comunque di milioni di persone che hanno bisogno, almeno in qualche momento della vita, di assistenza e terapie. E tra chi arriva effettivamente a rivolgersi ai servizi di salute mentale, molti sono casi gravi. Si veda per esempio una ricerca condotta recentemente presso il Centro Collaboratore dell'Oms di Ricerca sulla Salute Mentale, che ha sede presso la Clinica Psichiatrica dell'Università di Verona. Qui il 40 per cento dei pazienti psicotici in carico ai servizi risultano gravi secondo i criteri diagnostici standard, e si parla di almeno 332 pazienti psichiatrici gravi ogni 100 mila abitanti.

Su come assistere al meglio quei pazienti, in psichiatria continuano a scontrarsi scuole di pensiero molto diverse, divise soprattutto attorno alla domanda: quanto affidarsi ai farmaci? Ormai molte ricerche suggeriscono che i farmaci non possono essere che una parte della terapia psichiatrica: importante, fondamentale, ma a volte non la più importante. Come ha mostrato un altro studio condotto dal gruppo di Verona sull'esito a distanza di sei anni delle cure fornite dai servizi di salute mentale, per la qualità della vita dei pazienti psichiatrici gravi ci sono cose che contano più del controllo dei sintomi, cioè la funzione dei farmaci. Per chi deve convivere con patologie gravi come la schizofrenia, ridurre allucinazioni e deliri conta in realtà meno rispetto a trovare un lavoro, avere la possibilità di essere coinvolti in attività quotidiane organizzate, combattere la solitudine e lo stress. Cose che sempre più servizi di salute mentale in Italia si attrezzano per offrire ai propri assistiti. E anche da questo punto di vista, l'Italia rimane a livello internazionale una felice anomalia.

Fonte notizia https://www.espressonline.it

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